“Boy” di Roald Dahl

Per il terzo lunedì di fila Adolfina de Marco, grande amica e grande studiosa di letteratura per l’infanzia, nonché autrice in proprio, cura, nel senso vero e proprio di “si prende cura” del lunedì di Teste fiorite con la rubrica rohaldiana!

 

Oggi è….Boy, Roald Dahl, Salani.

 

Definirei Boy un romanzo che ha una certa sobrietà se lo paragoniamo ai romanzi e ai racconti traboccanti di umorismo, di ironia, di personaggi fantastici ai quali Dahl ci ha abituati. Ci accoglie un romanzo autobiografico tradotto da Donatella Ziliotto e una pagina di storia dell’educazione inglese del primo trentennio del secolo scorso nella quale Dahl riesce a mantenere l’inconfondibile “visione aerea” anche quando racconta la vita nei college, descrivendo aspetti denunciabili tra compagni e tra allievi e professori. Una realtà datata fino al 1939, lasciata al passato e trasformata in avventure che, ancora una volta, danno una lezione di sapienza, suggerendo al lettore che le esperienze possono trovare una posizione diversa sulla linea della vita basta saperle trasformare in oggetti di… pubblica utilità: in questo caso i libri. Dahl lo fa con i suoi personaggi che impasta con lievità e gratuità e che si trovano celati come indizi in questo romanzo. Nel capitolo Direttore si intuisce che la terribile signorina Spezzindue del romanzo Matilde sia stata ritagliata dalle descrizioni riportate circa la sua vita scolastica e in quello successivo –Cioccolato– è facile rintracciare l’idea da cui ha avuto origine La fabbrica di cioccolato senza escludere il negozio di dolci che incontrava nel tragitto casa-scuola. La nonna raccapricciante di George ne La magica medicina, potrebbe -anzi sicuramente- aver trovato ispirazione dalla signora Pratchett, la proprietaria di quel negozio. Insomma, in questo romanzo l’autore si racconta e lo fa con lo stesso dinamismo con il quale tratta i suoi personaggi fantastici. Nelle descrizioni, nel linguaggio, nelle azioni quotidiane riportate è infusa una verità nella quale ci riconosciamo. Lo sguardo di Roald Dahl è sempre inclinato verso l’infanzia dalla quale intende recuperare tutta la consapevolezza del sentire, dell’essere più che autentico. Nell’ultimo capitolo abbandonano riferimenti alla scuola e, aumentano i dettagli quotidiani e l’autore comincia a parlare di sé adulto, uomo d’affari nella City londinese, definendosi “felice, veramente felice”. Lo scrittore, con il solito umorismo, afferma che quel tipo di vita è semplice se confrontata a quella di uno scrittore che è “un vero inferno”: deve imporsi un orario, sforzarsi di lavorare, trovare nuove idee, eccetera, eccetera eccetera.
Un romanzo che ha strascichi di nostalgia per quel periodo della sua vita fino al 1939, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. “Ma questa è un’altra storia, che non ha niente a che fare con l’infanzia, la scuola…” conclude lo scrittore e qui concludiamo anche noi lasciandovi ogni spazio per andare a trovare o a ritrovare questo particolare e tuttavia perfettamente “roaldhiano” libro in cui la nostalgia per un mondo infantile non cede mai alla malinconia per il tempo passato; la lautatio di un tempo passato è decisamente sorpassata dall’ironia pura e da quell’orecchio acerbo che di fatto permette al grande autore, adulto e cronologicamente distante dall’infanzia, di saperla ascoltare in tutta la sua intensità.

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