Il silenzio nei libri di Silvia Vecchini

Il silenzio è un elemento che afferisce al tempo o allo spazio?

Il silenzio esiste in sé o esiste come percezione?

Secondo me il silenzio è uno spazio, forse i poeti potrebbero convenire su questo: il silenzio è uno spazio vuoto di segni linguistici caricato di senso dall’assenza. In qualche modo il silenzio significa di per sè ed è per questo che i poeti con i versi vanno a capo, lasciano del bianco e che questo bianco sia di più  o di meno ha sempre un senso.

Cosa dice i silenzio?

Quale senso ha il vuoto di parole?

Difficile dirlo, il silenzio, ma straordinariamente esso può rappresentare i due estremi comunicativi:

può dare forma, spazio, all’assenza (con tutto ciò che questa può significare a seconda del contesto)

ma può anche dare forma ad una presenza.

In ogni caso “giocarsi” questa carta è difficilissimo, specie quando di mestiere si fa lo scrittore, si gioca con le parole…però, però le parole hanno senso se sono circondate dai giusti spazi bianchi, siano essi li spazi lasciati dai versi, siano essi spazi interpretativi lasciati al non-detto e messi lì perché ognuno li riempia.

Troppo facile sarebbe scomodare Wittgenstein con la sua ultima preposizione del Tractatus “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, troppo facile e infatti non lo farò perché quel tipo di silenzio a cui il filosofo fa riferimento si trova, per suo statuto stesso, al di fuori del gioco linguistico.

Io invece nel gioco linguistico ci voglio stare e così ci sanno, eccome, gli scrittori, poeti e narratori che se scelgono di tematizzare o di utilizzare il silenzio lo fanno all’interno di questo gioco scegliendo quindi sempre di stare al di qua “di ciò di cui non si può parlare”.

Silvia Vecchini, scrittrice e poetessa che mi piace moltissimo per levità di lingua e struttura narrativa, con il silenzio sembra avere un rapporto particolare se lo troviamo tematizzato in diverse occasioni e là dove non è direttamente tematizzato viene “spazializzato” nella versificazione.

Telefonata con un pesce, da poco edito da Topipittori, illustrato da Sualzo, e La mia invenzione, di Edizioni Corsare illustrato da Maria Giron, sono entrambi albi illustrati che mettono a tema il silenzio, benché in modi decisamente diversi.

Quella della telefonata con un pesce è la storia di un bambino che sostanzialmente pratica il mutismo selettivo: comprende tutto e partecipa a suo modo alla vita della classe in cui si trova ma non parla mai, nemmeno se gli pestano un piede per sentire se grida. Solo una sua compagna entra in sintonia con lui, di quel silenzio non prova diffidenza o fastidio ma curiosità, spinta alla comprensione empatica.

Poi, un giorno, durante una visita ad un museo della tecnica, in un acquario di pesci con una cornetta telefonica dentro (messa lì a significare che i pesci comunicano anche se stanno in silenzio, secondo i nostri parametri) capisce: il suo compagno (nessuno dei due protagonisti ha un nome) è come un pesce in un acquario: comunica anche se è in silenzio ma, soprattutto, attraverso un mezzo “neutro” che riempie lo spazio mantenendo le distanze (come un telefono, ad esempio), riesce a parlare. Riempie il silenzio di parole.

Bella la scoperta della bambina, a tutti noi verrebbe da dire che questo bambino così timido da sembrare muto è come un pesce fuor d’acqua; la Vecchini invece alla bambina protagonista fa usare la stessa metafora al contrario: è un pesce DENTRO l’acqua, dentro un acquario, per l’esattezza. Non è fuori dal mondo degli altri, bensì è dentro il SUO di mondo, e non mi pare la stessa cosa.

La mia invenzione, invece, narra, di nuovo in prima persona, qual è l’invenzione gioco che tiene compagnia e riempie gli spazi e i tempi della bambina protagonista.

Se leggete il testo, che è versificato, messo di seguito, senza la separazione delle tavole, è una poesia, fino all’ultima voltata di pagina sarete probabilmente portati a pensare che la sua invenzione sia la fantasia (parola piuttosto trita e spesso svuotata di senso che troppo facilmente si appioppa all’infanzia), e invece l’invenzione della bambina, indovinate un po’, è

il silenzio.

Un silenzio che riempie, non che sottrae. Toglie parole ma mette attenzione, invenzione (appunto), pensiero, creazione.

I due albi, anche nella scelta iconografica non si assomigliano neanche un po’: se la Maria Giron per La mia invenzione sceglie un tratto molto molto realistico, mimetico della quotidianità della protagonista; Sualzo (alias Antonio Vincenti) invece sceglie di entrare in acqua con il bambino silenzioso, di seguirlo nell’acquario accompagnando la narrazione con un sacco di pesci, costruendo le tavole in maniera decisamente meno realistica e, soprattutto, scegliendo di lavorare solo con i colori sulle tonalità dall’azzurro al ciano al giallo pallido. Il suo, dell’illustratore intendo, è un silenzio di colori, mancano i colori e quella mancanza è riempita dalla scala di blu.

Pur nelle differenze i due libri ci parlano dell’autrice, delle sue scelte e delle sue…debolezze, o meglio inclinazioni, preferenze, forse. Il silenzio è qualcosa che alla Vecchini evidentemente parla molto e che la sua poetica tende a significare in forme narrative (attraverso la tematizzazione) e in forme poetiche (attraverso la versificazione).

Nell’uno e nell’altro caso vale la pensa seguirla e affidarsi con fiducia ai pieni e ai vuoti, alle parole e ai silenzi sicuri che entrambi significheranno storie.

Silvia vecchini sarà a Venezia con Teste fiorite in Querini domenica 18 marzo con il corso La poesia è un vetroper informazioni scriveteci a [email protected].

Teste fiorite Consenso ai cookie con Real Cookie Banner