Tantibambini. Einaudi, Munari e le critiche di Natalia Ginzburg
Care Teste fiorite buon lunedì!
Mi piacerebbe riuscire a raccontarvi l’atmosfera, non i contenuti ma l’atmosfera, che si è respirata sabato al corso di Nadia Terranova, ma siccome non ne sarei capace, di quell’incontro voglio riprendere uno spunto su cui per me è importante tornare.
Ho dedicato molti anni del mio lavoro di ricerca alla storia dell’Einaudi e all’opera di Calvino; l’ambiente in cui convivevano come consulenti editoriali e al tempo stesso autori Natalia Ginzburg e Calvino è una fucina affascinante e che è bene frequentare almeno un pochino per incontrare la nostra storia culturale.
L’Einaudi degli anni Cinquanta è alquanto diversa, inevitabilmente, da quella degli anni Settanta in cui entriamo oggi, e tuttavia alcune cose tornano, alcuni meccanismi si ripetono, l’abitudine a pensare i libri come ce la racconta la Mangoni fino agli anni Sessanta continua, mutatis mutandis.
Nel 1972 nasce, sotto la direzione editoriale di Bruno Munari, la collana “Tantibambini”, una collana tutta dedicata ai piccoli lettori che cerca di raggiungere, come dice il nome della collana, tanti bambini con tanti libri diversi. Finalmente prende forma e sostanza un’idea che Einaudi rincorre dal 1941: in una lettera ad Einaudi il 7 gennaio infatti Alicata scrive di aver già preso contatti con Munari per “la Collezione per Ragazzi che tanto ti preme in questo momento” chiedeva “entro quali limiti, per questa scelta di libri per ragazzi, deve essere contenuta la mia facoltà di decisione quale, all’ingrosso, curatore della collana. Ci sarà o no, una commissione senatoriale all’uopo delegata?”.
Siamo nel 1941 e già l’Einaudi pensa ad una collana per ragazzi, e al coinvolgimento di Munari come grafico ed autore se non già come direttore editoriale. Ma sarà nel 1972 che questa prospettiva si realizzerà appieno con, appunto, “Tantibambini” che pubblicò tra il 1972 e il 1978 una sessantina di titoli.
Caratteristiche comuni tra tutte le pubblicazioni furono la grafica, il formato praticamente quadrato e l’incipit della storia nella copertina. Oggi questo formato lo ritroviamo tale e quale, come l’aveva pensato Munari, in alcuni libri editi da Corraini tra i quali, sono stati ripubblicati anche alcuni usciti in “Tantibambini”.
La collana non ebbe il successo sperato nonostante il costo volutamente molto contenuto, o forse proprio per questo. Si dice che alcuni librai all’epoca addirittura boicottarono la collana perché richiedeva una difficile opera di promozione a fronte di un guadagno bassissimo e anche perché il formato dei libri, così sottili e senza costa li faceva perdere negli scaffali…in effetti Munari li aveva pensati per essere esposti di piatto,appesi o impilati ma comunque non messi in libreria come gli altri (per la serie a volte i designer non fanno i conti con la realtà).
Oggi sono in molti a ricordare e a osannare questa collana per l’innovazione grafica e di proposta narrativa ma all’epoca probabilmente suscitò alcune perplessità all’interno della stessa Einaudi. Tra le carte e le lettere edite di Calvino c’è un unico riferimento a questa collana e si trova in una lettera a Toti Scialoja del 9 giugno 1973 (Lettere, Meridiani, Mondadori, p. 1209):
“[….[ Spero che tutto vada bene con Munari e che il libro possa uscire entro l’anno. Sarà certo il primo libro geniale di quella collana”.
Il riferimento è a La zanzara senza Zeta e il parere implicito di Calvino sui primi libri editi in “Tantibambini” non sembra entusiasta. Se si ricercano informazioni su questa collana e sui suoi esiti si trovano articoli che le esaltano e vi individuano l’origine della nostra letteratura per l’infanzia contemporanea. Tuttavia, se sicuramente la collana ebbe dei meriti indiscussi e vi uscirono titoli fondamentali, le ombre ci sono e ci sono state, la collana, non i singoli titoli, oggi sembra datata e se così è, probabilmente lo si deve alla famigerata poetica di collana espressa dalle retro coperte che tanto fece, a ragione, infuriare Natalia Ginzburg.
«Fiabe e storie semplici, senza fate e senza streghe, senza castelli lussuosissimi e principi bellissimi, senza maghi misteriosi, per una nuova generazione di individui senza inibizioni, senza sottomissioni, liberi e coscienti delle loro forze».
Di seguito potete leggere per intero l’articolo che la Ginzburg scrisse riguardo “Tantibambini” e edito nella raccolta di scritti e saggi, fuoricatalogo, Vita immaginata, Mondadori editore. Come leggerete quello che non quadra è proprio questo intento pedagogico altisonante che addirittura mira ad eliminare le sottomissioni e a liberare le future generazioni e lo fa eliminando, programmaticamente, gli elementi delle fiabe.
E’ evidente che questa è un’operazione tipicamente anni Settanta, che per altro, fortunatamente, non trova espressione diretta nei libri; è proprio l’intento aprioristico morale pedagogico che stona.
Se tuttavia trovo straordinario il testo della Ginzburg sin qui, ritrovandovi passi che potrebbero diventare oggi dei manifesti a difesa dell’infanzia di oggi; dall’altra non mi convince appieno il richiamo alle Fiabe italiane di Calvino che l’autrice individua come vero capolavoro di libri per bambini, per altro pubblicato dallo stesso Einaudi.
Le Fiabe vennero pensate, riscritte e edite con intenti del tutto lontani dalla letteratura per l’infanzia. Uno studio specifico delle fiabe ma che non mira esplicitamente al lettore bambino. Non lo fa e non lo può fare perché non era questo l’intento editoriale dell’operazione mastodontica fatta sul patrimonio fiabesco italiano da Calvino, voluto da Einaudi. Certo che quelle fiabe possono essere lette a bambini e possono essere narrate ai bambini e che il lavoro su quella lingua, quello stile, è senz’altro un’operazione silenziosamente più pedagogica di tante altre esplicite. Ma l’idea di creare libri per i lettori bambini con grafica e forma e contenuti pensati ad hoc, non derivanti dall’immagario fiabesco della tradizione orale, è ben altra, così diversa da non essere paragonabile.
Forse c’è qualcosa di mio, personale, idiosincratico contro le Fiabe, o meglio, contro il modo in cui le fiabe sono viste nella maggior parte dei casi (dagli adulti): come parte preponderante, se non unica, della letteratura rivolta ai bambini. Certo che dalle fiabe e dal patrimonio orale, non solo fiabesco, non si può prescindere, ma perché, ancora oggi, mi capita di sentirmi dire, quando dico che mi occupo di letteratura per l’infanzia, “allora leggi fiabe”?
No, non leggo fiabe o almeno non leggo solo quelle, il rimando essenziale non può essere unico e univoco e in qualche modo anche questo richiamo della Ginzburg, per altro straordinario, mi pare vada un po’ in quella direzione. O forse no, forse è solo la mia lettura in questo momento molto personale.
O forse è un po’ questo e un po’ quello…valutate voi, prendetevi qualche minuto e leggetevi questo testo che anche solo per la forza della prosa merita di essere quasi mandato a memoria per chi si occupa di bambini.
“L’editore Giulio Einaudi ha cominciato una nuova collana per bambini. Si chiama «Tantibambini» e la dirige Bruno Munari. Ne sono usciti quattro libri. Li ho avuti. Ho pensato che erano carini. Che costavano poco. Che erano piacevoli a vedersi e maneggevoli. Le illustrazioni più belle, mi sono sembrate quelle che accompagnano una scelta delle Poesie senza senso di Edward Lear. C’è inoltre un libro di Gianni Rodari, un racconto in prosa, che si chiama Gli affari del signor Gatto. L’ho letto subito e l’ho trovato carino. Gianni Rodari è uno dei pochissimi scrittori per bambini che ci siano in Italia. È molto amato dai bambini. Di lui, a dire il vero, io preferisco le poesie alle prose, ma i bambini amano anche i suoi racconti in prosa (o almeno i bambini che conosco io). Dunque fino a qui tutto bene. C’era però qualcosa che mi irritava e non capivo cos’era. Un altro libro si chiama L’uccellino Tic Tic. L’autore si chiama Poi. Non so chi sia questo Poi. Anche questo l’ho letto subito, si legge d’altronde in due minuti. È la storia d’un bambino che ha paura del lupo, ma l’uccellino Tic Tic dà da mangiare al lupo, gli dà molte cipolle, teste di sardine e scarpe vecchie, il lupo non ha più fame e diventa buono, il bambino non ha più paura. Una storia graziosa. A un certo punto mi sono accorta che quello che mi irritava erano le parole scritte sul retro di ogni volume. Queste parole dicono: «Fiabe e storie semplici, senza fate e senza streghe, senza castelli lussuosissimi e principi bellissimi, senza maghi misteriosi, per una nuova generazione di individui senza inibizioni, senza sottomissioni, liberi e coscienti delle loro forze». A poco a poco ho capito che queste parole non solo mi sembravano irritanti, ma le detestavo. Esse mi sembravano piene di una presunzione suprema. Ho pensato che se veniva offerto L’uccellino Tic Tic sbadatamente e senza attribuirgli importanza, e se era lecito aspettarsi da questa collana per l’infanzia libri di ogni natura e di ogni specie, bene, ma se veniva presentato L’uccellino Tic Tic con dietro un programma pedagogico e come bibbia delle nuove generazioni, allora L’uccellino Tic Tic io lo trovavo rivoltante.
Alla luce di questa irritazione, ho guardato ancora L’uccellino Tic Tic e non mi è sembrato niente affatto grazioso. La morale dell’Uccellino Tic Tic è che bisogna dar da mangiare ai lupi perché così diventano buoni. Non è vero. Chi l’ha scritto ha pensato che è bene demistificare agli occhi dei bambini l’idea del lupo. Però i lupi esistono. Si possono sfamare quanto si vuole, restano lupi e usano mangiare gli uomini. Oltre ai lupi, esistono persone che assomigliano ai lupi e il mondo ne è pieno. Non vedo quale vantaggio abbiano i bambini a pensare che i lupi diventano miti se gli si dà da mangiare. Non vedo nemmeno quale vantaggio abbiano i bambini a non aver più paura dei lupi. È un errore credere che la paura sia un male. La paura, è necessario soffrirla e imparare a sopportarla. Inoltre i lupi non mangiano le cipolle. Ora un lupo che mangia cipolle e scarpe vecchie, è lontano dal vero non meno che le streghe o le fate. Così vorrei sapere perché le streghe e le fate sono tenute al bando in questa collana, come superate e retrograde, e destinate ad antiche generazioni che si abbeveravano di fantasie e illusioni, e invece si lascia il passo a questo lupo che mangia le cipolle.
Alla luce di questa irritazione, ho riguardato tutti e quattro i libri di questa collana e ho pensato che se ciascuno di questi libri in sé andava benissimo, la prospettiva di altri libri simili dava la sensazione di asfissiare. Tutto era prevedibile e predisposto. Una collana per l’infanzia dovrebbe essere avventurosa e libera come un bosco. Questa era invece come un’impalcatura di legno.
Non riesco a sentire una vera irritazione contro Bruno Munari, direttore di questa collana, perché non lo conosco di persona. Ma l’editore Giulio Einaudi è un mio amico e mi è carissimo. Nulla di quello che lui fa o pensa mi è mai indifferente. Perciò tutta l’irritazione la provo in verità contro di lui. Egli ha pubblicato anni fa il più bello fra i libri per bambini che siano stati scritti nel nostro tempo: Le fiabe italiane di Italo Calvino. È un libro stupendo. È pieno di fate, di maghi, di principi lussuosissimi e di castelli bellissimi. È pieno anche di contadini e di pescatori. Vi si respira l’aria libera della fantasia e insieme l’aria aspra e libera della realtà. Non contiene insegnamenti morali se non quelli inespressi che ci offre ogni giorno la nostra vita reale. Non contiene intenzioni pedagogiche di nessuna specie. È scritto in una prosa limpida, lineare e concreta, una prosa esemplare perché è così che si deve scrivere per i bambini, una prosa totalmente priva di parole superflue. Sfido chiunque a trovarvi una sola parola superflua. Sfido chiunque anche a trovarvi una sola parola leziosa. Calvino certo non aveva in testa nessuna idea educativa, ma in verità nulla è più educativo dello stile quando è chiaro, rapido e reale. Le Fiabe italiane sono delle vere fiabe, create generosamente per la gioia del prossimo, e così è necessario che siano le fiabe per i bambini, inventate e create unicamente per la felicità. È vero che Calvino non ha propriamente inventato queste fiabe, le ha raccolte nella tradizione italiana e riscritte, ma avendole egli riscritte nella sua prosa rapida e limpida sono sue. Sulle Fiabe italiane, bambini di ogni età si estasiano e si sono estasiati. L’editore Giulio Einaudi, di questo libro ne ha vendute montagne. Non se ne è dimenticato, perché lo ristampa di continuo. Si è accorto, l’editore Giulio Einaudi, d’aver pubblicato un libro fondamentale nel campo della narrativa per l’infanzia? Lo sa o non lo sa? Se lo sa, come mai esce fuori adesso con la frase «senza fate e senza maghi»? Che è come dire «vi daremo delle ottime torte senza farina, senza zucchero e senza burro».
L’editore e il direttore di questa collana avrebbero invece dovuto dire con onestà: «Scrivere per i bambini oggi è difficilissimo. Non ci riesce quasi mai nessuno. Raduneremo i pochissimi che ci riescono. Fiabe nuove con fate e maghi non ce ne sono. È un gran peccato, ma non ce ne sono. Le Fiabe italiane di Calvino sono un capolavoro e un miracolo, ma i capolavori e i miracoli sono rari per forza di cose. Perciò faremo del nostro meglio. Avrete quello che passa il convento».
Forse questa non sarebbe stata una buona frase pubblicitaria. Non importa. Se io pubblicassi o dirigessi una collana per l’infanzia, ci scriverei sopra a grandi lettere queste parole.
Le ragioni per cui oggi scrivere per i bambini è così difficile, sono infinite, ma una certo è che è nata in noi l’idea che ai bambini tutto può far male. La fantasia (ci atterrisce perché è avventurosa, imprevedibile e forte. Noi ne abbiamo poca, e per giunta l’adoperiamo con mani parsimoniose e schifiltose. Quando si scrivono o si stampano libri per bambini, per prima cosa si sbarrano porte e finestre. No alle storie di dolore perché il dolore fa male. No alle storie di miseria perché sono patetiche. No alle lagrime. No alla commozione. No alla crudeltà. No ai cattivi, perché non bisogna che i bambini conoscano la cattiveria. No ai buoni perché la bontà è sentimentale. No al sangue perché fa impressione. No ai castelli lussuosissimi perché sono evasione. No alle fate perché non esistono. I bambini sono fragili e perciò li nutriremo con vivande lavate e disinfettate. Li educheremo alla concretezza, avendo però sterilizzato la concretezza, avendo isolato nella concretezza ciò che non manda né bagliori né lampi. Li nutriremo con sabbia, accuratamente filtrata e senza batteri. Li nutriremo col bicarbonato, col borotalco e con la carta assorbente.
Mi si dirà che ai bambini piace il bicarbonato. Può anche darsi che gli piaccia quando non hanno altro. Il problema però non è che gli piaccia o gli dispiaccia il bicarbonato. Il problema è invece come crescono con questo tipo di alimentazione i bambini. Nelle Fiabe italiane di Calvino, a cui non mi stanco di richiamarmi, ci sono teste tagliate, cadaveri, briganti, ladri, orchi, crudeltà e orrori. I bambini ne sono deliziati. Questo perché le vere e belle fiabe sono in verità inoffensive. Esse sono situate nell’unico luogo dell’universo dove non esiste offesa, cioè nei regni della vita fantastica. Quando mettono paura, è la paura salubre e liberatrice della fantasia, paura di cui lo spirito ha desiderio e alla quale si protende come a una fiamma che lo riscaldi. Della vita fantastica, i bambini hanno fame e sete, le fate e i maghi abitano nel loro pensiero e il fatto che non esistano nella realtà è per loro giustamente irrilevante, perché i regni della vita fantastica sono popolati di oggetti comunque invisibili e intangibili. Nei regni della vita fantastica, anche le immagini più crudeli generano felicità. Si sa bene che la felicità è fatta anche di spavento e di angoscia. Sopprimere lo spavento e l’angoscia, significa sopprimere anche la felicità.
Aggiungerò che quello che detesto nella frase «senza fate e senza maghi, per una nuova generazione di individui senza inibizioni, senza sottomissioni, liberi e coscienti delle loro forze» è la retorica e l’ottimismo generazionale. Auguriamoci pure che le nuove generazioni siano costituite di individui liberi. Però non ne sappiamo proprio nulla. Inoltre non sappiamo affatto se sia un bene crescere senza inibizioni. Forse fra poco si scoprirà che le inibizioni, di cui l’uomo di oggi si fa gloria di essersi sbarazzato, le inibizioni e le lotte dei singoli per superarle o vivere con esse, erano il pane e il sale dello spirito”.