Sangue da naso

Tra i ricordi che mi restano della mia scuola dell’infanzia ce n’è uno di un bambino a cui uscì il sangue dal naso e, nella mia memoria, lego questo episodio ad un mio spintone o qualcosa del genere.

Quanto parte di questo ricordo sia vera e quanta renventata legittimamente dalla mia memoria non saprei, ma una cosa è certa: gli episodi che riguardano il naso, per un bambino e poi per quel bambino diventato adulto, hanno una capacità di persistenza superiore a molti altri.

Ha ragione Nadia Budde in questo davvero bello e importante graphic dedicato all’infanzia che è Sangue da naso appena edito da Topipittori nella collana “Gli anni in tasca graphic”:

I ricordi del naso di un bambino sono per sempre nascosti nella testa di un adulto

E non è solo questione del ricordo di qualcosa di fisico tipo il sangue, appunto, o lo scaccolamento ecc. ma anche di metafisico come solo gli odori, i profumi e le puzze annusati in età bambina sanno essere. Quegli odori di cui ricordi l’esistenza solo quando li risenti a distanza di secoli, praticamente, li senti con la memoria prima ancora che con il naso e li riconosci con il cuore prima ancora che con il ricordo che collega tempi, spazi e luoghi.

Che cosa sia l’infanzia, cosa sia stata la sua infanzia che comprende in misura necessaria e non sufficiente tutto ciò che ogni infanzia comprende, la Budde lo esplicita in una pagina fittissima di parole, senza immagini, locuzioni che una dietro l’altra ci riportano, a noi lettori ahimè già adulti, alla nostra infanzia, e ai lettori in quella fase di passaggio dall’infanzia all’adolescenza e poi su su fino all’età adulta, racconta qualcosa di loro stessi in cui riconoscersi per ciò che forse ancora sono un po’ e che tra poco, speriamo per poco, dimenticheranno di essere stati. Questa pagina ce l’hanno letta in situazioni molto differenti Silvia Vecchini e Nadia Terranova nei sue corsi che hanno tenuto qui a Venezia tra febbraio e marzo e dopo questa coincidenza: due autrici su due, la stessa pagina, lo stesso libro, ho capito che non potevo proprio fare a meno di questo libro.

Nadia Budde inizia a raccontare la sua infanzia nella Berlino Est, i nonni, la campagna abitata naturalmente dalla morte, le donne pari gli uomini, la vita di città contrapposta alla vita di campagna e al tempo stesso alla vita d’oltre il muro. Un racconto denso odorante che ci porta in uno spazio tempo che ormai ci paiono lontanissimi… per i bambini e i ragazzi di oggi sono quasi preistoria. Una preistoria da scavare, riesumare e raccontare.

Ma, per come l’ho vissuto io, il libro prende davvero il volo e va oltre il muro del tempo e della letteratura dal capitolo “Essere bambini era…”

Da qui fino alla caduta e alla risalita finale i libro davvero supera se stesso e ogni aspettativa raccontandoci di un’infanzia persona, decisamente soggettiva, in cui tuttavia ognuno può ritrovare la propria, di infanzia, i propri odori, le proprie cadute…e infine chiedersi a quale punto della risalita ci si trovi una volta che ci si è rimessi in piedi da quella caduta quasi senza fine che è l’adolescenza.

Essere adulti è… curare le ferite della caduta dal cielo dell’infanzia in cui non tutto era bello, certamente, ma in cui la possibilità di trovare senso e odore e senso all’odore di ogni cosa era intatta ed era tutt’uno con le cose stesse.

L’età adulta è un rialzarsi da questa caduta e impiegare tutto il tempo che ci resta a ritrovarci, a ritrovare quella parte di noi che si era smarrita, a curare le ferite e ad aspettare che poi tutto passi, anche la vita perché dalla morte poi la libertà è assoluta. Sangue da naso non esce più, va bene, ma puoi tornare, se non ad essere bambino, a giocare con i bambini.

La morte. Protagonista importante di questo libro almeno tanto quanto la vita e i suoi odori, almeno tanto quanto il naso e le sue infinite possibilità di memorizzazione.

Chi può leggere un libro del genere? Può un bambino dai 7 anni in su, un preadolescente, un adolescente comprendere tutti i riferimenti dell’ambientazione storica ecc. ecc.?

Credo che qualsiasi lettore possa leggere questo libro e credo che non abbia molta importanza che colga ogni cosa, basta che, anche inconsciamente, inconsapevolmente, ritrovi un po’ di se stesso: di ciò che è e di ciò che è stato.

Quando incontro le classi delle scuole secondarie una delle cose che i colpisce di più è la visione stereotipata, assolutamente non realistica e piatta, dell’infanzia ed ogni volta mi chiedo come sia possibile questo, in ragazzi e ragazze che, se tutto va bene sono usciti da quella fase da pochissimi anni ma che spesso per alcuni tratti ci sono ancora dentro fino al collo. Non so davvero cosa ci sia dietro, forse una volontà “naturale”, fisiologica di andare avanti, di girare pagina e cambiare età tentando di limitare i dolori che questa operazione richiede, forse altro, ma credo che sia fondamentale invece sostenere il ricordo e la presenza dell’infanzia nel vissuto e nella memoria. Fare memoria intima di ciò che si è stati per poi diventare qualcos’altro senza rinnegare o senza esorcizzare. Una bella lettura solitaria in cui a nessuno si deve dar conto di niente e in cui si possa rivivere o vivere in sintonia con la narrazione tutto ciò che essere bambini significa.

L’intervista di Lisa Topi all’autrice sul blog dei Topipittori merita, non perdetevela!

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