La lingua nel testo letterario per bambini e ragazzi

In questi giorni ho ripreso in mano dei libri con cui mi ero persa di vista da un po’: ho ripreso in mano gli strumenti del mestiere del critico: linguistica, critica ecc. ecc.

L’occasione mi è data dal corsicino “Chi ha paura dei libri per bambini” che sto preparando per i Dialokids di Trani  e dal seminario che terremo il 17 ottobre a Ca’ Foscari dedicato all’albo illustrato.

Alla ricerca di passaggi teorici che meglio mi aiutassero a mettere a punto i pensieri mi sono resa conto, una volta di più, che se da un lato i libri che si occupano di teoria letteraria ignorano l’esistenza della letteratura per bambini e ragazzi, dall’altra anche nei testi teorici di letteratura per l’infanzia molto ma molto difficilmente ritrovo uno spessore critico importante quale quello svilupppatosi per la letteratura tout court.

Mi pare in realtà che il livello di analisi critica dei libri per giovani e piccoli lettori si riferisca per lo più all’aspetto iconico (se si tratta di albi illustrati) e a quello pedagogico-didattico ma che poco si concenti sulle specificità della lingua e della lettura storico-diacronica della produzione letteraria.

Se quest’ultimo aspetto può essere incluso nella considerazione che forse manca distanza critica a sufficienza per tentare un approccio del genere, cosa che però non ha inibito studi del medesimo tipo in ambito della letteratura per adulti (si veda Remo Ceserani in Storicizzare, in Mario Lavagetto (a cura di), Il testo letterario, Laterza, 2001); un discorso sulla lingua può però essere tentato e credo avrebbe un suo senso.

Spero qualcuno si dedicherà prima o poi a questo tipo di analisi (o se qualcuno l’ha già fatto sarò grata di una segnalazione bibliografica) e nel frattempo oggi mi dedico a qualche suggestione in questo senso.

Quanto è importante la lingua con cui è scritto un testo?

Quanti sono gli elementi che l’autore deve tener presente, o tra i quali può scegliere per costruire la propria cifra stilistica?

Quando si inizia a scrivere la prima cosa da fare è decidere con quale voce si intende farlo: l’autore, anche quando scrive in forma autobiografica, incarna sempre i panni di qualcuno, foss’anche di se stesso.

Dunque una delle prime scelte, forse la prima che si presenta all’autore è: scrivere in prima persona o in terza persona.

Cosa cambia?

La prima persona facilita moltissimo nel lettore il processo di immedesimazione il che aumenta la velocità con cui l’autore stipula il contratto di finzione con il lettore e tendenzialmente è più incisiva dal punto di vista emotivo. D’altra parte però questo uso implica nell’autore la capacità di impersonare personaggi di sesso, luogo, tempo, età, stato sociale e chi più ne ha più ne metta, diversi da se stesso.

La terza persona invece mette più distanza, rallenta e media il processo di identificazione e permette all’autore di avere tutto sotto controllo, specie se ha scelto come modalità narrativa quella del narratore onnisciente. D’altra parte la terza persona permette al lettore di “scegliere” il personaggio in cui immedesimarsi o con cui stabilire un transfer; e anche di entrare in mondi paralleli in maniera apparentemente e immediatamente meno impegnativa dal punto di vista emotivo. Con la terza persona le cose non accadono “sulla pelle” del lettore.

Scelta la persona l’autore si troverà a scegliere che tipo di voce dare ai propri personaggi e alla propria scrittura: la condizione culturale e l’età dei personaggi, nonché il contesto storico in cui la storia è ambientata, tanto per dirne alcuni, sono elementi che possono modificare moltissimo la lingua nel senso sia della struttura sintattica che del lessico. La lingua nel suo complesso, qualunque scelta sia stata fatta in partenza, deve essere verosimile e in quanto tale richiede un livello di artificio e di lavoro notevolissimo, a differenza di quanto non si tenda a pensare, infatti, più la lingua mima il parlato (quindi in una scrittura in prima persona) più è necessario un lavoro sofisticato per ripulire ciò che di parlato vero sarebbe non accettabile nella lettura (ad esempio le parole vuote)  al tempo stesso per riprodurre quelle strutture sintattiche, quello slang e anche quelle sgrammaticature che fanno la differenza nel discorso diretto o diretto interiore.

Se il linguaggio in generale si compone di significato e significante, in cui il significante a sua volta sembra comporsi di langue e parole, direbbe Saussure, il testo letterario sposta il peso della lingua verso il significante e la parole preferendo spazi semantici meno strutturati, più porosi in cui far insinuare interpretazioni e metafore.

Per la poesia questo processo viene portato ancor più in là dando sempre più peso al significante rispetto al significato ma è in realtà questo un processo tipico di ogni testo letterario.

Nella scelta della “voce” con cui narrare la storia, in prima o terza persona che sia (ci sono anche i testi in seconda persona e sono solitamente romanzi epistolari, una forma eccezionale passata un po’ di moda, penso però al bellissimo Ciao, tu di Masini – Piumini), c’è la scelta dello stile sintattico: paratassi o ipotassi?

L’ipotassi è quello stile in cui si succedono lunghi periodi con molte subordinate e un uso massiccio della punteggiatura subordinante.

La paratassi invece si ha quando i periodi sono corti, brevi, sincopati, la punteggiatura la fa da padrona e il respiro deve farci molto bene i conti.

Ecco, tagliando con l’accetta (e mi scuso, vorrei poter argomentare come si deve ma non è questo il luogo adatto), si potrebbe dire che la paratassi è forse una delle più tipiche cifre stilistiche della modernità ed ancor di più della postmodernità. La paratassi nasce e si sviluppa un po’ di pari passo con lo sviluppo della riproduzione del pensiero che, si sa, non procede per strade piane e dritte. Lo stile paratattico si addice, ad esempio, molto bene ad una narrazione prima persona in cui del personaggio sentiamo (perché è come se li pensassimo noi in diretta) i pensieri e i dialoghi interiori oltre che esterni.

Anche quegli spazi lenti delle narrazioni che sono le descrizioni hanno cambiato cifra stilistica nel ‘900 prendendo più la forma, anche in senso linguistico, di paesaggi interiori quindi privilegiando uno stile più paratattico che ipotattico.

Quando si legge e si studia un saggio critico su questi temi molti sono gli esempi della letteratura mondiale che permettono di comprendere tutte queste sfumature e differenze che fanno parte della narratologia (la scienza che studia le tecniche narrative) ma che sono finalizzate all’interpretazione del testo la quale a sua volta è finalizzata all’individuazione e valutazione dei testi da proporre ai lettori. Manca invece, mi pare, questo tipo di lavoro con riferimento alla letteratura per l’infanzia.

A fianco alle parole nei testi per bambini e ragazzi possono esserci le immagini che moltiplicano amplificano le problematiche e le possibilità compositive e interpretative… ma questa è un’altra storia.

Concluso con una citazione di Roland Barthes da Il piacere del testo  di mi pare renda perfettamente il senso del lavoro critico.

Se piantate un chiodo sul legno, il legno resiste in maniera diversa secondo dove viene attaccato: si dice che il legno non è isotropo. Nemmeno il testo è isotropo: i bordi, le crepe, sono imprevedibili […] bisognerà pure che l’analisi strutturale (la semiologia) riconosca le minime resistenze del testo, il disegno irregolare delle sue vene.

 

 

 

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