Un’improvvisa felicità
Di fronte a certi libri, e a certi autori, resto senza parole, come si fa a scrivere tanto “intensamente” e allo stesso tempo con tale leggerezza’?
E’ una sensazione che sempre mi ha preso leggendo Guus Kuijer, autore di rarissima, mi pare, potenza. Se della sua serie di libri dedicata alla bambina Madelief vi ho raccontato ogni volta ne ho avuto l’occasione (qui, qui e qui), oggi vi vorrei raccontare della ragazzina Polleke a cui l’autore ha dedicato un’altra serie di libri, in Italia editi da Feltrinelli.
Ecco dunque il titolo di questa serie, che comprende 5 libri, di oggi è Un’improvvisa felicità tradotto da Valentina Freschi che deve aver fatto un ottimo lavoro se il libro si lascia leggere cosi bene, con le illustrazioni di Alice Hoogstad per Feltrinelli editore.
La narratrice è, in prima persona, Polleke, ragazzina di 12 anni che inizia a fare i conti con i tanti cambiamenti che l’età porta, facendo conto di avere una mamma in procinto di risposarsi con il suo maestro, un papà ex tossicodipendente in fase di disintossicazione in Nepal, un’amica Consuelo appena arrivata dal Messico dove ha subito ogni tipo di violenza, un fidanzato marocchino infido e un orsacchiotto che sapeva dire Sop, e che per questo si chiama Sop, e che inspiegabilmente non parla più.
Quello che si insinua tra le pagine in cui Polleke come in un diario racconta ciò che le accade, è un continuo domandarsi sui cambiamenti che dal corpo e dai sentimenti richiedono l’attenzione della loro “proprietaria”.
Polleke si trova a gestire situazioni complesse di amicizia, primi amori e familiari e su di esse si innesta un episodio di mancata violenza che lei racconta per filo e per segno e noi lo seguiamo, man mano, chiedendoci: “ma davvero l’autore ci sta raccontando anche questo?”. Sì Guus Kuijer propone un’amalgama di toni e di situazioni che si sovrappongono senza contraddizione esattamente come accade nella vita reale, la conclusione è sempre positiva perché l’uscita è sempre vitale e di speranza ma il male c’è, il dolore e la sofferenza non si nascondono specie a questa età in cui i sentimenti negativi fanno sempre più spesso capolino dal profondo.
Capire è come un film
che scorre nella mente
e in sottofondo una canzone
a cui credi veramente
Difficile fare i conti con la crescita, con la famiglia, con un mondo di adulti che appare quantomeno confuso, gli adulti però che circondano in presenza Polleke sono adulti saldi ed affidabili che sanno fare il loro mestiere di essere presenti al momento necessario e sanno tacere quando non è il caso di parlare. La coppia di nonni, in cui emerge l’elemento religioso della preghiera, dell’affidamento fiducioso e allo stesso tempo dell’operosità, è una composizione familiare fondamentale per Polleke in grado di sostenere la ragazzina e di mantenere vivo da un lato il legame col padre lontano e dall’altro con la natura che è elemento di riferimento fondamentale per Polleke che da grande vuole fare la contadina e la poeta, forse la contadina-poeta.
Polleke ci racconta tutto in maniera estremamente diretta, precisa e allo stesso tempo leggera, quello che più la turba sono i cambiamenti sommamente rappresentati da questo correlativo oggettivo dell’infanzia che è Sop l’orsetto che si ostina a non parlare più ma che non la lascia mai. Uno strascico tra passato e presente e chissà cosa sarà per il futuro.
Ma siccome la felicità esiste ed arriva improvvisa, forse anche solo per brevi periodi e senza cancellare il brutto, ma c’è, anche Sop, in chiusura tornerà a parlare, l’infanzia riprenderà un suo senso, nuovo, non il vecchio senso ma uno nuovo non meno bello.
Quasi ad ogni capitolo, che Polleke definisce nei sottotitoli con grande cura, la protagonista scrive una poesia e credo che questo sia uno dei tratti più riusciti del libro. Una convivenza di prosa e poesia, la poesia decisamente in minor spazio ma non con minor forza, che ci sorprende e ci fa sentire, nei versi, la voce più profonda di Polleke, quella in cui la sintesi seleziona ciò che resta della narrazione, la pulisce e ce la dà distillata.










Se con Madelief ci eravamo abituati ad una scrittura frammentaria, molto vicina al parlato, quasi cinematografica, Polleke sceglie una strada più “piana” in qualche modo, una narrazione in prima persona consapevolmente costruita in cui i dialoghi sono riportati in quanto tali e non vi è un tentativo di mimesi del parlato ma di riproduzione del senso di ciò che le preme raccontarci. Le inserzioni di poesia sono in qualche modo la sua cifra stilistica più forte ed arrivano ad interpolare la narrazione quando più si fa urgente un sentimento o un’esperienza difficile da elaborare.
Resta, in tutto ciò, più che sorprendente la capacità di questo autore di entrare in sintonia, o forse di tornare in sintonia, con un territorio dell’anima, come quello dell’infanzia ed in questo caso del passaggio dell’infanzia all’adolescenza.
Se scoprirete Guus Kuijer e Polleke vi assicuro che non li lascerete più! Questi sono libri che non possono mancare in nessuna, e davvero nessuna, biblioteca scolastica delle secondarie di primo grado!
In me prima c’era qualcosa
che ora è perso e non si trova,
qualcosa di tenero, piccolino,
un motivetto birichino.
Ora al suo posto c’è un buco incolore
e sul fondo, inaspettato, un dolore