Prima che sia notte di Silvia Vecchini

Ci sono libri che quando arrivano devono essere lasciati decantare, ci sono quelli che lavorano piano sotto e riemergono quando sono pronti, e quelli che si impongono e ti mettono alle strette.

“Lo so, hai tanti libri in attesa, tanti lavori sospesi ma adesso ci sono io e ti occupi di me”, così mi dicono questi libri, e vi assicuro che io con loro parlo correntemente…

Quando succede così cosa volete che faccia?

Seguo la mia testa che segue il mio cuore che segue il libro, scardino, laddove posso, i programmi e lascio spazio.

Così è accaduto per Prima che sia notte di Silvia Vecchini con le illustrazioni di Sualzo, edito da Bompiani. Un romanzo, forse, o forse sarebbe meglio dire di un prosimetro, in cui vengono narrati i giorni di un bambino che non sente, che vede solo da un occhio, e che forse perderà anche ultimo contatto visivo con la realtà, con sua sorella, con il mondo esterno.

La storia è narrata con un doppio registro, doppio narratore e quindi doppia scelta di persona: c’è una bambina che dice io e che scrive quasi tutto il romanzo come fosse una sorta di diario promemoria di questi giorni tesi. Lei scrive in poesia e le sue pagine occupano poco bianco della pagina per lasciarne tanto libero di significare.

Poi c’è un secondo livello, quello di un narratore esterno in terza persona, un narratore informato dei fatti ma che li vive insieme ai veri protagonisti. Un narratore che, se pure sa qualcosa in più di noi e di noi, se lo tiene per sè. Questo narratore riempie le pagine come sanno fare i testi di narrativa, i romanzi, i racconti, insomma sembra esprimersi in maniera più “consueta” per un romanzo.

I capitoli sono scanditi dalle lettere rappresentate nell’alfabeto LIS, una delle tante lingue, tutte NON sonore con cui la bambina comunica con il fratello. La LIS il braille e il tatto, naturalmente, che diventerà preponderante quando il bambino, a seguito di un ennesimo intervento all’unico occhio che ancora vede qualcosa, resterà completamente al buio per un po’, o forse per sempre.

Ho diverse lingue nel mio corpo.

L’italiano nelle righe del quaderno,

una lingua rossa e blu.

L’inglese delle canzoni

che mi canta nelle orecchie.

La lingua della nonna

che sa di cucina

ma anche della paura,

dell’emergenza

delle grida dalla stanza

tra mamma e papà

dell’ambulanza da chiamare.

Poi c’è la LIS

la lingua dei segni.

Dove sembra che non puoi

spaventarti mai.

Ecco, quanto sono belli questi ultimi due versi, pur sapendo che qui “bello” significa ben poco… la lingua dei segni “Dove sembra che non puoi spaventarti mai” che a me fa venire in mente il verso leopardiano “Ove per poco il cor non si spaura”.

L’intero libro è un via vai di lingue, la bambina sappiamo che scrive a macchina, chissà come scrive l’altro narratore, di lingue che prendono forma di poesia, ma anche di calligramma e ci lasciano sorpresi così come sorpresa deve restare la pagina così lasciata bianca.

Poi la grafica delle pagine segue non solo la volontà della narratrice, ma anche la non volontaria cecità del bambino silenzioso protagonista che prende voce grazie alla sorella. Lui mette una benda a coprire l’unico occhio che vedeva qualcosa e il buio lo avvolge. Il lettore viene avvolto dalle pagine nere.

Siamo nel buio anche noi con lui, dobbiamo provare a usare, insieme alla narratrice, altre lingue, quella del braille ma soprattutto quella del tatto. Certo è un linguaggio che solo possiamo immaginare, noi lettori, questo non è un libro tattile, ma se è vero che la buona lettura ci fa sospendere l’incredulità e attiva i neuroni specchio come se le azioni le stessimo compiendo davvero, invece di starle solo leggendo, allora eccoci lì anche noi, a toccare, a tentare nuove lingue per tentare una comunicazione, per entrare in con-tatto. Un contatto con il bambino sordo e ipovedente, un contatto tra la bambina e il suo giovane compagno che con le scopre la fragilità del conformismo e della paura ma che poi, grazie a lei, scopre la nuova lingua dell’amore, della com-passione, del sentire insieme, dell’essere ancora come il calligramma ci ricorda.

Alla fine la luce torna, l’unico occhio torno a vedere qualcosa, la luce sembra ritornare nella vita dei bambini così come nelle pagine del libro per lasciarci ancora un po’ di tempo per abituarci a usare altre lingue, quelle che serviranno dopo, quando arriverà la notte, perché la notte, il buio arriveranno e saranno per sempre.

Ma qui siamo prima, abbiamo tempo e luce per imparare linguaggi non scontati, mai banali, da affinare prima che sia notte.

Un gran bel libro con cui Silvia Vecchini entra delicatamente e originalmente, come lei davvero sa fare, in un mondo lontano e distante, ce lo avvicina, ce lo fa vedere, sentire e toccare, ci porta in territori raramente esplorati dalla narrazione, sicuramente molto ma molto raramente in grado di prendere tali e tante forme e forze, di usare ogni freccia all’arco del linguaggio, qualunque lingua ci troviamo a parlare.

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