I figli del mastro vetraio
Pietro fa rima con vetro, Chiara è chiara come il vetro, questi sono i nomi dei figli di Sofia e Alberto il mastro vetraio protagonisti del bellissimo romanzo di Marie Gripe I figli del mastro vetraio edito da Iperborea con la traduzione di Laura Cangemi.
Si tratta di un romanzo intenso e particolare che sembra avere odore di altri tempi, sembra provenire dritto dritto da una tradizione fantastica nordica.
Ed in effetti, a ben guardare, da lì viene e come ogni storia fantastica che si rispetti (e per una definizione di territori del fantastico vi rimando qui) procede su un piano di costuzione narrativa profondamente metaforico.
Evidenti la metafora del vetro per la fragilità, e di tantissimi altri elementi che compaiono nell’ambientazione anche spaziale del racconto di vista della famiglia del mastro vetraio, ma il livello di metaforicità si eleva all’ennesima potenza quando entra in gioco la città dei desideri in cui il Sovrano per statuto e per volere esaudisce i desideri del mondo, o così crede di fare senza rendersi conto che, anche là dove ci riesce, produce due cose: l’infelicità del prossimo che viene privato di un qualcosa di suo che serve a colmare il desiderio di un altro ma, soprattutto, l’infelicità di chi viene a lungo andare privato della possibilità di desiderare.
Già, a tutti piace esprimere desideri e desiderare che si esaudiscono, ma cosa accadrebbe se non esistessero più desideri da desiderare?
E’ questo che accade quando il Sovrano fa rapire i bambini convinto di dar loro una vita migliore a palazzo nella città dei desideri piuttosto che nella fredda e poverissima dimora del mastro vetraio ed al tempo stesso di rendere felice la Sovrana con dei bambini (non suoi…) Tutto un enorme fraintendimento dell’animo umano, di ciò che vuol dire essere deprivati, di ciò che vuol direi desiderare e si ciò che vuol dire realizzare la propria vita accettando che non tutti i desideri possano esaudirsi.
E come in ogni narrazione fantastica al limite del fiabesco che si rispetti compare l’elemento magico incarnato da un personaggio straordinario e strepitoso che davvero aumenta di gran lunga il valore di tutta la narrazione. Svolazza Beltempo sembra in tutto e per tutto ad una strega ma è votata solo al bene e a lei e il suo corvo Savio, che da un occhio vede il bene e dall’altro vede il male, si deve la risoluzione del racconto.
L’intreccio è complesso, la trama articolata e come sempre non è mio interesse svelarla la struttura narrativa invece sì, mi interessa svelarla: la tripartizione del romanzo serve ad equilibrare piano di realtà e piano magico-fiabesco. Siamo nel mondo reale della famiglia del mastro vetraio nella prima e nella terza brevissima parte del romanzo. Il lunghissimo excursus centrale della seconda parte corrisponde invece al passaggio dei bambini nella città dei desideri là dove il tempo e di fatto la narrazione, sembrano fermarsi. Aumentano le parti descrittive, il ritmo narrativo rallenta, se non fossimo in una scrittura di questo livello questa sarebbe una parte ben ostica da leggere. Eppure qui si svela in tutta la sua forza la componente fiabesca e magica che giocando su strutture narrative del tutto diverse da quelle messe in campo nella prima e poi nella terza parte, tiene il giovane lettore incollato alla narrazione.
Un libro che letto ad alta voce forse aumenta di potenza perché conserva, come accennavo all’inizio quel qualcosa di ancestrale legato all’oralità che lo rende perfetto per una lettura ad alta voce magari poi seguita da una rilettura individuale.
Iperborea nella collana miniborei continua a tirare fuori piccoli grandi classici della tradizione nordica per l’infanzia e non sbaglia un colpo, prestate attenzione a questa collana e vedrete che ne varrà senz’altro la pena.