La febbre dei silent book
Perdonatemi il gioco di parole e l’accostamento casuale e del tutto arbitrario di citazioni ma il titolo del libro di oggi e ciò che vorrei provare a dire, mi si sono accavallati così: da una parte il titolo del libro vincitore del Silent Book Contest 2020 Che febbre! di Rina Allek, e dall’altro il dato che vede un importante incremento dell’interesse intorno a questa forma narrativa e dunque del numero di partecipanti, da tutto il mondo, al concorso specifico per i libri senza parole dedicato a Gianni de Conno e che vede come capofila Carthusia che poi pubblica i vincitori ed anche altri libri tra i finalisti.
Ecco qui l’origine un po’ scema del titolo di questo post, la febbre dei libri senza parole, che è anche la febbre per i libri senza parole, ma proviamo adesso ad entrare molto brevemente in entrambi gli argomenti del post e poi spero seguirete la tavola rotonda “Ma quanto parlano i silent book” di martedì 11 maggio alle 17.30 sui canali di Carthusia a cui parteciperanno, oltre me, Patrizia Zerbi, editrice di Carthisa, Walter Fochesato e Emanuela Bussolati.
Che febbre! mette in scena quell’iperattività mentale ed emotiva, immaginifica e terrifica, che tutti abbiamo sperimentato insieme alla febbre alta. Quel momento in cui tra veglia e sonno arrivano i pensieri e le immagini più incredibili in cui si accavallano, come sempre nell’onirico accade, mostri perturbanti che minano la quiete, e che di fatto stanno minando la nostra salute nel momento della febbre alta, e quelle creature salvifiche che poi ci portano sempre fuori dal sonno. La bambina protagonista ha questa specie di cane-volpe-lupo che la accompagna e che la difende in un giro tra cielo e terra, la prende dal divano e lì la riporta, al calduccio, possiamo immaginare che in questo passaggio i brividi della febbre aumentino e poi svaniscano.
Il colore dominante è il rosso del calore della febbre, ma anche della forza del sogno, e il blu del cielo, siamo di notte, quando tutto è più difficile da far passare ma, come diceva Eduardo, “Adda passà ‘a nuttata”.
Qualcuno, autrice in primis, ha collegato questo albo alla situazione sanitaria internazionale e tuttavia io preferirei lasciarlo così com’è perché concepito prima della pandemia per narrare per immagini una condizione che tutti bambini di tutto il mondo conoscono e credo che questo sia sufficiente, è un albo mimetico nel suo rappresentare una condizione fantastica.

Ma veniamo alla parte che più mi interessa e che accomuna tutti gli albi senza parole, o silent book o cordless book, chiamateli come più vi piace: la costruzione narrativa per sole immagini che a dispetto dell’apparenza è decisamente complicata dall’assenza della parola. Gli albi senza parole, quelli riusciti, sono quasi sempre di per sé una garanzia di qualità poiché sono prodotto letterari talmente complessi da costruire che se si arriva a farlo vuol dire che già abbiamo superato una discreta soglia di qualità. Certo anche in questo campo ci sono i capolavori e i libri meno belli ma siamo comunque sempre in una fascia alta, perché?
Perché la tenuta narrativa del ritmo, della consequenzialità, della consolidazione dei personaggi, insomma di tutti quegli aspetti narratologici che fanno sì che una storia stia in piedi, senza poter far conto su ciò che le parole possono aiutare, per esempio, ad esplicitare, a spiegare, a concatenare, è decisamente complessa. Provare per credere, i nessi logici, i passaggi e anche la tenuta ritmica sono messe a durissima prova dovendo far conto sul solo linguaggio iconografico (oltre a quello grafico naturalmente che tiene insieme il libro nel suo essere oggetto che chi chiede di essere letto e ci legge). Dietro ad ogni libro senza parole c’è comunque sempre una regia di scrittura che conduce la creazione delle tavole anche se lo fa senza farsi vedere. Quando i libri senza parole hanno due autori (scrittore e illustratore) questo è evidente, in libro come Che febbre!, invece, in cui l’autrice è unica accade come per gli albi illustrati in cui lo stesso autore scrive e illustra: perdiamo i confini dei linguaggi creativi ma questo non vuole dire che tali confini o che tali linguaggi non esistano.
Perché dunque togliere un linguaggio quando potrebbe essere così d’aiuto?
Beh, perché siamo in una tipologia specifica che questo prevede, innanzitutto, sarebbe come dire perché non scrivere in versi liberi un sonetto se la creazione si semplifica? Banalmente perché non avremmo più un sonetto con la sua forma specifica che lo fa essere ciò che è a prescindere da ogni contenuto.
Il libro senza parole è così, senza parole, e chi sceglie di cimentarsi lo fa per sperimentare i confini di questa possibilità narrativa. Il risultato, per altro è quello di un libro che può puntare ad un pubblico più ampio, a possibilità ermeneutiche se possibile ancora maggiori perché non ha bisogno della mediazione di una lingua, almeno non necessariamente. Quindi arriva a chi non sa leggere, a chi parla una lingua diversa, a età diverse e culture diverse perché il linguaggio iconografico è il più universale che ci sia e questo non mi pare un motivo secondario per scegliere il libro senza parole come opera letteraria in cui cimentarsi, con competenza e cognizione di causa e sapendo che la faccenda è assai complessa.
Infine, seppure non ci sono parole, in questi libri, scritte, infinite sono le parole e i suoni, in qualsiasi lingua, che ne possono scaturire nella relazione libro-lettore come anche abbiamo provato a discutere nel corso Oltre la parola con Alfonso Cuccurullo…ma di questo parleremo alla tavola rotonda quindi qui mi fermo e ci vediamo domani alle 17.30 sul canale YouTube o Facebook di Carthusia
