Un’estate da morire

E’ stata Molly a tracciare la riga.

Così inizia Un’estate da morire di Lois Lowry edito da 21 lettere con la traduzione di Enrico Santachiara.

Il nome della Lowry è ben noto al pubblico di lettori della letteratura per ragazzi, il suo The giver, appena riedito nella nuova edizione Giunti col titolo Il messaggero, è una specie di best seller del settore. Ma, come spesso accade, degli autori che diventano grandi e che sbarcano in un Paese straniero, si perdono le origini; le prime opere, forse anche perché talvolta meno mature delle successive (ma non è detto che così sia) o ritenute tali, restano sconosciute. E’ questo il caso di Un’estate da morire che è la prima prova della Lowry come scrittrice per ragazzi ed è un piccolo romanzo, lungo un’estate, dall’intenso gusto autobiografico anche se la finzione narrativa maschera come è giusto che sia.

Accade spesso nella vita di un ragazzo o di una ragazza che un’estate cambi la vita, o almeno che ci dia questa nettissima impressione, per Meg la vita verrà cambiata davvero dalla morte per malattia della sorella Molly. E’ Meg a raccontare in prima persona quell’estate, a ricostruirla da prima del suo inizio a dopo la sua fine, a dare a Molly tutto lo spazio necessario, uno spazio tutto di vita e molto ma molto poco di morte. La localizzazione interna, l’equilibrio della costruzione narrativa fa si che ci sia una sorta di voluta divisione, non bilanciata, tra due parti della narrazione, quella in cui sembra non accada nulla e si prepara il terreno al dopo, e quella dove invece accade tutto, il precipitare della situazione della sorella che però resta sempre quasi in secondo piano bilanciata da elementi narrativi ugualmente forti e tutti ma proprio tutti bilanciati verso… “il bene” direi, anzi la vita. Ecco, il dualismo che costruisce ed informa, nel senso che proprio dà forma alla narrazione, è quello tra la vita e la morte, tra il male e il bene, tra la luce e il buio che non a caso sono le due componenti fondamentali dello sviluppo fotografico che Meg sperimenta quotidianamente nella sua camera oscura.

Meg fotografa la vita, la sviluppa e usa un vero e proprio diaframma per osservarla, nel presente e nel passato. Non ho idea e non mi interessa se questa componente della fotografia faccia davvero parte della biografia dell’autrice ma so che qui gioca un ruolo fondamentale per inserire un elemento che da metaforico diventa tematico e diaframmatico per mediare il sovrapporsi di situazioni opposte, lo scivolamento di Molly verso la morte e la nascita di un bambino in una famiglia di amici vicini di casa di campagna che chiedono a Meg di testimoniare con le sue foto il parto in casa. Non so fracamente se per una ragazzina dell’età di Meg, siamo nella fascia della pre adolescenza, sia più forte l’esperita vissuta in prima persona di una nascita o di una morte. Certo la nascita è quella di un bambino “estraneo”, la morte quella della sorella con cui si è dovuto fare i conti per ogni istante di esistenza, e tuttavia chissà cosa resta poi. Come dice Meg alla fine i ricordi belli prevalgono su quelli brutti e Molly vivrà sempre giovane e il piccolo Happy invece invecchierà rovesciando così la ruota della vita e dell’esistenza fissata per sempre nelle foto.

E vi chiedo scusa, mi sono lasciata andare alla trama che veste l’impalcatura narrativa, caspita come è difficile raccontare un romanzo nel suo essere “scheletro”, la pelle e il vestito gli si appiccicano subito addosso e non si staccano più. Poco male tanto più che, come è necessario che sia, questo vestito sta proprio bene addosso a questo scheletro perché è proprio perfetto per la sua fisionomia. Il ritmo, l’attesa, il gioco col tempo è credo la componente tecnica che più fa sì che il vestito della trama segua perfettamente le curve del libro e delle vite di Meg e Molly.

Sono felice di aver letto questo piccolo romanzo, ben scritto e che incontrerà lettori che se ne appassioneranno, proponiamolo lasciando la parte la trama, questo è un romanzo di luce e buio, come tutti, non serve accanirsi sulle ombre, anche perché dal suo ricordo resterà la luce di una bella lettura, magari estiva, perché no.

E’ bello quando piccoli editori scovano chicche belle e che li aiutano crescere e Un’estate da morire credo lo sia e spero lo sarà.

L’ha fatto col gesso. Un gesso bianco, tozzo, avanzato da quando eravamo entrambe piccole e vivevamo in città, i marciapiedi erano il nostro regno, e giocavamo a campana. Quel gessetto era rimasto in giro per molto tempo. Lo pescò da un piattino d’argilla, che avevo fatto all’ultimo anno del corso di ceramica, dove giaceva con una cordicella, alcune graffette e una pila forse ancora carica.

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