Orso e i sussurri del vento
Vi capita mai di ascoltare i sussurri del vento?
Di seguire una foglia svolazzante apparentemente a caso?
A Orso capita, o almeno è capitato e chissà se ricapiterà di nuovo, e questa è proprio la storia di quando gli capitò di lasciare tutto per seguire i sussurri del vento ed una foglia. Questo è Orso e i sussurri del vento il nuovo bellissimo albo di Marianne Dubuc edito da Orecchio acerbo con la traduzione di Paolo Cesari.
Quando esce un nuovo libro di Marianne Dubuc tengo sempre le antenne alzate, non sono tutti del medesimo livello alcuni deliziano per leggerezza, altri, come questo, sorprendono per profondità. La profondità non è il contrario della leggerezza, è solo… più profonda, e la Dubuc sa avere la capacità di raggiungere profondità degne di Mohole con la leggerezza del topo postino. Ci è riuscita nel mio amatissimo Leone e l’uccellino, ci è riuscita con Il sentiero, con Non sono tua madre e ci riesce ancora una volta, con questo Orso e i sussurri del vento.
Orso prima aveva una bella casa ed era felice della sua vita. Poi, senza che apparentemente nulla accada, arriva l’urgenza di mettersi in viaggio, di stare solo, di andare non si sa dove. Orso sulla sua strada trova un amico con cui si ferma per un po’, con cui sembra stare bene, eppure arriva di nuovo il momento di andare; arriva anche arriva il desiderio di tornare a casa ma la via di casa è perduta. Il terrore dell’essere senza meta si assomma a quello per il temporale. E poi arriva lui, Mus, il topolino con cui Orso ricostruirà la sua nuova casa, la sua nuova esistenza, in cui fermarsi, almeno per il momento.
Ma proviamo ad entrare meglio nella narrazione.
Innanzitutto il ritmo del racconto, tutto narrato esternamente tranne pochi dialoghi, gioca su un tempo presente che ha un prima, narrato, ed un dopo, aperto grazie a quel “Per il momento” che chiude il libro, che manca nell’edizione originale ma accolto dall’autrice nell’edizione italiana.
Il viaggio di Orso è un viaggio interiore in cui ciò che vale è il viaggio, non il suo motivo né tanto meno la meta che non c’è. Quando Orso si mette in cammino lascia la porta di casa aperta, chissà che qualcuno non possa essere felice abitando la sua vecchia casa come lo è stato lui. Poi con l’incontro con il coniglio si imbatte in un modo d’essere che lo affascina ma evidentemente non gli appartiene: quello di chi ripara ciò che ha di più prezioso per non rischiare di perderlo, ovvero la sua casa. Orso la sua casa l’ha lasciata di proposito, altro che ripararla. Con coniglio Orso sta bene ma è evidente che hanno stili di vita diversi, il coniglio mai sentirebbe i fruscii del vento.
Però il coniglio ha il potere di destabilizzare la scelta di Orso che infatti pensa di dover tornare a casa, il confronto con il punto di vista del coniglio fa sorgere il dubbio in Orso, e se ha sbagliato tutto scegliendo di seguire una foglia al vento?
E se invece non ha sbagliato proprio un bel niente perché siamo tutti diversi e anche i momenti della vita sono diversi?
C’è chi è come il coniglio e chi è come Orso ed anche chi è come Mus il topo.
Il punto è capire chi si è, se si viaggia per andare da qualche parte, per andare dentro se stessi, per cambiare o se semplicemente non si viaggia e si sta bene così.
Entriamo nel testo delle illustrazioni che ricordano il percorso figurativo del Leone e l’uccellino: intanto non sfuggirà la differenza tra le prime pagine in cui l’immagine è incorniciata, e le successive in cui l’illustrazione occupa l’intera doppia pagina senza margini. Le figure torneranno a stringersi nella cornice solo in un paio di altri momenti topici: quando Orso decide di andarsene; quando viene accolto dal coniglio; quando scappa dal temporale e quando ricostruisce una quotidianità con Mus (in questi ultimi due casi l’incorniciatura è funzionale allo sviluppo temporale in sequenza). Circa a tre quarti arrivano a sorprenderci le due tavole di nero assoluto, proprio come nel Leone e l’uccellino c’erano le due di bianco totale. Tutto nero e solo un breve testo:
Restare immobili.
Nascosti
Un vero blackout emotivo ed esistenziale, e fisico dell’immagine, per poi ripartire con la vita.
Bellissima la tavola in cui Orso parte e in cui il protagonista si mette in cammino da sinistra verso destra, è all’inizio del cammino, dunque è quasi al margine della pagina sinistra, ed ha la testa voltata all’indietro, al passato, alla casa. La scelta è fatta ma il dubbio resta ed anche la memoria e forse, chissà, anche un briciolo di nostalgia? E – abbiate pazienza ma così va oggi – io non ho potuto non vedere in Orso che va avanti con la testa indietro l’Angelus novus che avanza verso il futuro senza dimenticare il passato.
Chiunque ci riesca, ad andare avanti guardando indietro (per un po’), può dirsi umanamente compiuto e forse Orso ci è riuscito, a camminare così per un po’, almeno fino a quando la strada è diventata più sicura, il temporale passato, e finalmente ha potuto guardare stabilmente non tanto al futuro quanto al presente.
Traete voi, se volete, tutte le conclusioni su questo albo che di possibilità interpretative ne apre tantissime ed è pronto ad accogliere il lettore che vi ci si vorrà buttare dentro in cerca di se stesso.