L’orologio meccanico di Philip Pullmann
Non si dovrebbero scrivere riflessioni su un libro sulla scorta dell’emozione della lettura. Bisognerebbe lasciare sedimentare i pensieri e lasciare che l’analisi emerga più lucida.
Farò un’eccezione per L’orologio meccanico di Philip Pullmann appena riedito da Salani con la traduzione di Maria Bastanzetti e le illustrazioni di Peter Bailey.
Farò questa eccezione per due motivi: innanzitutto perché questo è un racconto che proprio per genere codificato richiede una lettura di pancia che sarebbe un peccato far raffreddare; in secondo luogo perché la costruzione e la spinta interpretativa del racconto è talmente forte e pulita che non temo di perdere lucidità ma questo starà a voi valutarlo!
Dunque questo è un racconto, gli amanti del genere probabilmente lo definirebbero un racconto lungo, decisamente di genere, o almeno questo vuole farci credere l’autore: siamo tra il noir e il fantastico ma temo che questo non sia sufficiente a individuare la collocazione di questa narrazione.
L’aspetto che più mi ha colpito, infatti, non è la qualità e pulizia narrativa con cui Pullmann ci fa letteralmente venire la pelle d’oca, siamo di fronte ad un autore sin troppo riconosciuto ed esperto per non dare questo quasi per scontato, bensì l’elemento metanarrativo che più che un fiume carsico riaffiora ad ogni piè sospinto della narrazione. Aggiungo a questo elemento quello ancora più evidente e giocato a carte scoperte dell’intreccio e gioco con alcuni classici dei vari generi, impossibile non sentire il palpitare non solo, ovviamente di Poe, ma anche del Dumas de La donna dal collier di velluto, di Hugo Cabret e persino di Pinocchio immancabile archetipo del passaggio dall’inumano umano all’umano vero e proprio.
Ma come vedete questo secondo aspetto lo si può individuare velocemente ed anche se potremmo analizzare a lungo i rimandi interni l’elemento che più mi interessa, lo sapete, è quello metanarrativo.
La presenza metanarrativa si manifesta in due modi in questa narrazione, per altro contribuendo secondo me in maniera interessante alla creazione e al mantenimento della tensione narrativa o comunque del ritmo narrativo in costruzione.
Il primo modo è quello diretto: il narratore si intromette spessissimo, ci dà delle indicazioni, ci mette in guardia, ci accompagna, insomma è lì con noi a patire vicino a noi ma dandoci la certezza che lui ci è passato in mezzo, a questa storia, incolume, e lui la sa lunga perché è un bel narratore onnisciente che sa già tutto come va a finire! Il suo intervento ci aiuta anche a reggere le fratture dell’intreccio in cui il primo piano narrativo e il secondo si intrecciano. Il primo piano narrativo è dato dalla storia che il narratore racconta, ovvero quella in cui una notte di inverno il personaggio Fritz inizia a leggere uno dei suoi racconti terrorizzando l’uditorio; il secondo piano narrativo è quello in cui la storia scritta e narrata da Fritz (e non conclusa) entra nella “prima” storia e la influenza e la conclude al posto della storia raccontata. Insomma si crea un intreccio di piani narrativi particolarissimo che molto spesso e molto esplicitamente viene paragonato dal narratore agli ingranaggi di un orologio.
E qui arriva il secondo modo in cui si manifesta l’elemento metanarrativo di questo racconto: là dove diventa un vero e proprio saggio sul potere scrittura e delle storie.
“Tu non capisci”, ribatte Karl, infervorandosi. “Per te è tutto così semplice! Tu ti siedi alla scrivania e appoggi la penna sul foglio di carta e le storie escono da sole! Tu non sai cosa significa spremersi le meningi per ore, sudare sette camicie e non tirar fuori neppure un’idea decente, lottare con materiali che si rompono e attrezzi che si spuntano e persino il filo della lama, arrivare a strapparsi i capelli perché non riesci a trovare una nuova variazione dello stesso vecchio tema già sfruttato da tutti [….]”.
[…]Fritz fece fatica a trattenersi e a non interromperlo quando Karl cominciò a parlare delle difficoltà del suo lavoro. Le storie sono difficili da mettere insieme tanto tanto gli orologi, e possono finire male con la stessa facilità… come per altro vedremo accadere proprio alla storia di Fritz di qui a qualche pagina.
p.16-17
Eccolo qui, il narratore in carne ed ossa (si fa per dire) che si mescola all’autore, e prima teorizza le difficoltà del proprio lavoro usando la metafora delle difficoltà dell’orologiaio Karl e poi esplicita la metafora lui stesso ed approfitta pure per anticiparci che questa cosa, questa confusione e questo sottovalutare la difficoltà di creare meccanismi narrativi porterà Fritz e non solo a fare una pessima fine!
E i passi come questi non mancano nella storia, e quando arriva la bambina Gretl, e meno male che c’è lei!!, la pericolosità del mestiere di scrittore la intuisce ed esplicita tutta senza mezzi termini!
[….] comunque so di chi è la colpa di tutto questo. E’ di Fritz che ha scritto la storia, quindi la colpa è sua. Se solo riuscissi a scoprire come finiva… p.74
Ora vi sembrerà che Fritz sia il protagonista del racconto e invece proprio no, esattamente come l’autore prima e il narratore dopo, lui è il responsabile, il colpevole, della storia, non il protagonista! Chi e cosa sono protagonisti ve lo lascio scoprire da soli!
Un’ultima cosa ci tengo però a segnalare prima di lasciarvi: i riquadri che l’autore dissemina in mezzo al racconto spezzano la tipologia di narrazione, introducono delle varianti interessanti a partire quasi da una necessità descrittiva, chiarificatrice in qualche modo, e a loro modo contribuiscono moltissimo ad amplificare l’elemento metanarrativo.
Dedicato a tutti coloro, adulti e ragazzi che mi chiedono un libro che fa venire la pelle d’oca e che sia di ottima qualità, L’orologio meccanico credo non vi deluderà!