Solo una parola

Questo post è scritto da Chiara Costantini che cura la rubrica “Un libro in cartella” ogni due giovedì.

“Solo una parola”

Età: dai 9 anni
Pagine: 175
Formato: 13 x 20
Anno: 2021
Editore: Bur Rizzoli
Autore: Matteo Corradini
Illustratore: Sonia Cucculelli

Oggi in cartella “Solo una parola

Un libro. Un libro che si intitola “Solo una parola”. Un libro piccolo, ma potente. Un romanzo dalla grande forza simbolica. Un libro che attraverso una parola dà voce a un racconto.
Oltre al libro, in cartella, anche il PC portatile per la DDI (per permettere ai bambini a casa di seguire la lezione) e il cavalletto per la registrazione del video della lettura da fruire in modalità asincrona per gli assenti. Fare didattica nel bel mezzo di una pandemia non è cosa semplice. Il mio impegno quotidiano è riuscire a preservare l’essenza della didattica, malgrado le difficoltà. La didattica è l’arte di insegnare. Insegnare ad imparare. Il mio obiettivo personale è continuare a fare didattica, indipendentemente dalla modalità. Una didattica di presenza perché l’importante è esserci (anche “a distanza”), continuare ad essere un riferimento per i bambini al di là delle fatiche quotidiane.
Dopo questa premessa che ci permette di collocarci nel nostro momento storico particolare, torno alla giornata di oggi.

La Giornata della Memoria.

Come dice spesso la mia amica Roberta Favia, non si può parlare della Shoah un solo giorno l’anno. Sono convinta, però, che questa giornata possa essere un “promemoria” per parlare e riflettere sull’argomento, “almeno” un giorno l’anno.
La Giornata della Memoria può fungere così da pietra d’inciampo “per non dimenticare” quanto accaduto in passato e soprattutto per non ripeterlo in futuro. La storia passata è parte di noi e quanto accaduto ci forgia nel nostro essere più profondo, nelle scelte presenti e future.

Da un paio d’anni “Educazione civica” è divenuta una materia curricolare…

Molti colleghi (e per colleghi non mi riferisco agli attuali colleghi di plesso, ma alla più vasta categoria degli insegnanti) si sono lamentati: “Cosa serviva trasformarla in disciplina…? Si è sempre fatto educazione civica”. Io credo che un conto sia fare le cose, un conto sia avere la consapevolezza di farle e del perché le si fa. A mio avviso, così, si ha la possibilità di focalizzare alcune questioni fondamentali per il nostro tempo e l’opportunità di riflettere in modo critico e consapevole rispetto tali questioni, con particolare riferimento allo sviluppo dell’identità personale e alla salvaguardia dei diritti umani.

Solo una parola

Ho letto “Solo una parola” di Matteo Corradini lo scorso anno, durante le vacanze di Natale. Ho scelto che l’avrei letto in quarta perché il protagonista – Roberto – ha nove anni, proprio come i miei alunni di quarta primaria. Credo che a questa età i bambini abbiano la giusta maturità tale da poter proporre le vicende della Shoah.

Come?

Certo, non mediante immagini cruente, docufilm o racconti duri, ma attraverso una metafora, un racconto simbolico, una sorta di “facciamo finta che”, perché è proprio nel gioco del “far finta”, che i bambini hanno “sperimentato” fino a poco tempo fa, e per fortuna qualcuno ancora sperimenta. È la cosa più vicina a loro. Permette di per sperimentare l’empatia, di calarsi in una situazione, di conoscere e provare una sensazione di disagio, di ingiustizia. Capire e comprendere emozioni, sentimenti, pensieri provate da altri, ma che avrebbero potuto essere o potrebbero diventare nostre.

Abbiamo iniziato a leggere questo libro in classe ad alta voce al rientro delle vacanze natalizie.

Un capitolo al giorno.

Ci siamo presi il tempo necessario per leggere, con calma e custodire quanto letto.
In alcuni occasioni è emersa l’esigenza di parlare, in altre quella di stare in silenzio.

Prendo il libro.

Leggo il titolo, l’autore, l’illustratore… la casa editrice.
“Chiara… che libro è?”
“Non vi anticipo niente, iniziamo a leggere, poi mi direte voi…”

Cala il silenzio.

Inizio a leggere

Roberto ha nove anni, Roberto ha nove amici, Roberto ha nove biglie nel cassetto del comodino, Roberto ha nove libri e li tiene in ordine dal più grande al più piccolo, Roberto ha nove vestiti tra estate e inverno, Roberto è il nono che chiamano all’appello. Roberto vive a Venezia da quando è nato, e di automobili nella sua vita ne ha viste pochissime, forse nove in tutto, mentre non ricorda un giorno senza almeno una barca.

Il libro narra la storia di Roberto, un bambino di nove anni e di due suoi grandi amici Alvise, suo coetaneo e Lucia, un anno più grande, e delle loro famiglie. Alla fine del primo capitolo si legge:

Dimenticavo: Roberto porta gli occhiali.

Sembra un dato descrittivo come un altro. Invece in questa storia chi porta gli occhiali va allontanato. Bisogna diffidare di chi porta gli occhiali. Chi porta gli occhiali è pericoloso. Chi porta gli occhiali è un “occhialuto”.

Commenti a caldo

“Chiara, ma è ambientato a Venezia? Che forte, è bello come viene descritta… che le vie si chiamano calli e i marciapiedi che costeggiano i canali si chiamano fondamenta, è vero, è proprio così”
“Siamo in un’epoca diversa… lontana…”
“L’ho capito dal fatto che stampare una fotografia costava moltissimo”
“Si capisce anche dal fatto che Adele scrive al suo ragazzo una lettera d’amore anziché mandarle un sms”
“Anche perché c’è la radio, neanche la TV… altro che smartphone”

“Anche i giochi sono diversi, dice che gioca a campana e la disegna con i gessetti”
“Beh questo si fa ancora…”
“Sì, ma una volta facevano solo quello, adesso tra allenamenti di calcio, videogiochi ecc, beh è un po’ diverso, no?”
“I disegni sono bellissimi e… realistici, sembra proprio Venezia”
“Maestra, hai sentito che dice un sacco di volte il numero 9”
“È vero… che ha 9 anni, 9 amici, 9 biglie, 9 vestiti, 9 libri… poi che vede 9 stelle, 9 barche… anche un po’ ripetitivo”
“Forse ci sarà un motivo…” aggiunge la compagna
“Chiara, ma tu questo libro l’avevi già letto? Cioè tu leggi sempre i libri prima di leggerceli in classe?”

Annuisco

“Forte”
“Sì, li leggo sempre – rispondo – anzi, quasi…”
Qualcuno capisce al volo e inizia a ridere: “Ti riferisci a quel libro brutto che ci hai letto prima di Natale?”
“Esatto” (per ovvi motivi non diremo il titolo in questa sede).

Finché leggevo mi sono accorta che Elisabetta aveva una faccina strana.

Elisabetta porta gli occhiali.

Per la prima volta Elisabetta pensava: “E se davvero fosse così? …anch’io porto gli occhiali”.
Cosa è la normalità? Chi stabilisce la soglia, il confine tra una condizione e un’altra?
“Elisabetta… tutto ok? Ti disturba questo libro?” chiedo.
“Beh… un po’ si… non ho mai pensato che i miei occhiali potessero essere un problema…” mi risponde.

“Chiara, sai… una volta Luca, dell’altra classe, mi ha detto: “Vedrai che ti metterai gli occhiali… perché sei strabico”. Me lo ha detto più volte, insistendo. Io l’ho lasciato perdere. Sai come è finita? Che lui si è dovuto mettere gli occhiali”.

Intanto Leonardo, dal fondo della classe, per solidarietà ha tirato fuori i suoi vecchi occhiali, a supporto morale della povera Elisabetta, un po’ scombussolata…. Questo gesto mi ha fatto tenerezza, anche perché Leonardo è un timido, non sta tanto a spiegare. Ma a volte un gesto gentile può esser potente. Poi qualche capitolo dopo ha raccontato che la prima volta che ha messo gli occhiali da piccolo i compagni non lo riconoscevano. Questo era il suo ricordo.

E non era un bel ricordo.

In una giornata uggiosa e fredda di metà gennaio siamo andati a leggere in campo del Ghetto di Venezia. Perché anche i luoghi parlano. Il freddo gelido penetrava le nostre giacche e dava corpo alle parole. La nebbia rendeva tutto così reale. Colori offuscati. Poche persone in giro. Sembrava per un momento di esser stati catapultati nel libro. Il tutto accompagnato da un silenzio secco, disarmante, inibente.

Quanto vuoi che faccia male una parola?

Foto di Cosetta Rossi (Grazie!) 🙂

Abbiamo scoperto che una parola fa male. E ferisce. Non tanto per la parola in sé ma per il significato che le viene attribuito nel dirla e nel riceverla.
“Io sono rimasto male quando un bambino più grande mi ha chiamato “capelluto””
“A me quando mio fratello mi ha detto “Sei scema”, ma con un tono proprio brutto”
“Ciccione”
“Piccolo”
“Pignola”
“Curiosa”
“Lento”
“Perdente”

Ci siamo soffermati a ragionare

Ci siamo soffermati a ragionare su come si faccia presto a sentirsi legittimati ad agire, anche facendo qualcosa di sbagliato, quando ci si trova dalla parte del più forte.
Ci siamo soffermati a ragionare sul valore dell’informazione e dell’attendibilità delle fonti e sull’etica della comunicazione. Troppo spesso l’informazione è manipolata e fa pendere l’ago della bilancia da una parte piuttosto che dall’altra perdendo così la sua implicita vocazione di oggettività. A tal proposito ne è scaturita un’interessante discussione di classe, tra bambini, sul senso del vaccinarsi. Alcuni sostenevano l’inutilità del vaccino, perché comunque si prende il virus, altri sull’importanza dello stesso per proteggere i soggetti deboli e ridurre le probabilità di contagio. Inevitabilmente ciascuno ha sostenuto una teoria magari sentita a casa e quindi ritenuta vera. Ho colto al volo l’occasione, non per innescare o alimentare polemiche, ma per spiegare i meccanismi sottostanti l’informazione.

Avviandoci verso la lettura dei capitoli finali ci siamo man a mano avvicinanti al nocciolo della questione. Per scelta non ho proposto attività metacognitive a sostegno della lettura.

In questi giorni è stato bello veder crescere la preoccupazione di Roberto (il protagonista del libro) e la consapevolezza di ciascuno rispetto alla questione affrontata.

“Chiara oggi possiamo leggere due capitoli?”
“Ma, maestra, questa non è una storia vera… non è successo davvero. Vero?!?”

E io “Non dico né sì, né no… tra poco capirete”
“A me questo libro piace sempre meno” conferma Elisabetta.
“Aspetta – dico io – tra poco capirai…”
“Parlano di razze umane, ma cosa centra se uno porta gli occhiali…”

Ne è seguita un’interessante conversazione sulle leggi razziali.

La metafora e gli occhiali

La metafora serve a far capire una cosa cos’è senza dire quella cosa lì. La metafora è una specie di paragone senza usare il “come”. Assomiglia al gioco del “far finta” e permette di vivere un’esperienza empatica.
Nulla per caso. Almeno non in questo caso. La conclusione del libro ha coinciso con la spiegazione della metafora in una lezione in cui stavamo affrontando il genere della “poesia”.
La metafora ideata dall’autore per qualcuno è stata un’illuminante scoperta: pur narrando fatti terribili, senza nominarli esplicitamente ha permesso di comprenderli a fondo.

“Gli occhiali sono una metafora! Aiuta a capire! Gli occhialuti sarebbero gli ebrei! E così abbiamo potuto capire le cose brutte che hanno fatto loro”

Questo libro è un piccolo capolavoro!

È un piccolo capolavoro perché permette di comprendere il meccanismo umano che si innesca ed è alla base di ogni discriminazione. Conoscere questo meccanismo è indispensabile perché è lo stesso alla radice del bullismo o del cyber bullismo. È ciò che nutre gli hate speech.
Insomma, un paio di occhiali per vedere la storia con le lenti giuste, per conoscerla, per non dimenticarla.


“Chiara per fortuna alla fine non devo preoccuparmi se ho gli occhiali, ma mi è servito molto leggere questo libro, grazie”

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