Avrei voluto di Olivier Tallec
Adoro Olivier Tallec dai tempi dell’insuperato Lupo e lupetto e ogni suo libro mi attira e diverte e così è stato anche per Avrei voluto, edito come gli altri dell’autore da Clichy, che è per me idealmente il fratello di Questo è il mio albero…
Il protagonista di Avrei voluto è uno scoiattolo, forse lo stesso insoddisfatto del libro precedente, che adesso sceso dal suo albero, forse datosi pace del dover condividere il proprio spazio abitativo e vitale con altre creature, si guarda intorno e scopre, tra gli altri esseri viventi, caratteristiche fisiche e possibilità di esistenza diverse dalle sue… forse migliori delle sue… tanto migliori da arrivare a desiderare di voler essere qualcos’altro, ovvero qualcun’altra.
A questo scoiattolo un po’ nevrotico che si guarda nello specchio in una posa che a me così tanto ricorda Narciso in tutte le sue riproduzioni pittoriche, non viene in mente di contemplare la propria bellezza bensì la propria “mancanza”. Cosa manca allo scoiattolo per essere come vorrebbe? E quindi, come vorrebbe essere?
E qui partono una serie di ipotesi di vite alternative, di ognuna lo scoiattolo immagina dapprima tutti i lati positivi ma poi arrivano inaggirabili gli inevitabili rischi che l’essere un altro animale comporta… pensiamo all’istrice, ad esempio, animale placido che può godersi il suo tempo libero e arrotolarsi come una palla sotto le foglie, esistenza senz’altro migliore di quella dello scoiattolo, pensa lo scoiattolo…
E tuttavia il porcospino mangia lombrichi e finisce sotto le macchine come niente fosse… E allora, ipotesi dopo ipotesi, si inizia a far strada nell’animo dello scoiattolo scontento che tutto sommato essere scoiattolo non è cosa poi così brutto…
Ma il vero colpo di scena e di genio, come quasi sempre accade nelle storie di Tallec, arriva nel finale quando lo scoiattolo incontra un animale che, come lui aveva desiderato essere qualcos’altro e anzi, più precisamente, aveva voluto essere uno scoiattolo…
Tutto questo viene portato avanti nell’albo di Tallec più dalle illustrazioni che non dal testo, il testo ci guida e esplicita quel poco necessario (lo abbiamo detto tante volte che il testo di un albo illustrato deve essere ellittico e breve per lasciare posto all’interpretazione delle immagini) mentre le illustrazioni mettono in scena e ci permettono di vedere, con una ironia notevolissima che provoca il riso nel lettore, cosa ne sarebbe di questo scoiattolo che di fatto non perde mai del tutto la sua forma ma seme ogni volta, ad ogni immaginazione, le caratteristiche dell’animale in che avrebbe voluto essere: le corna da cervo, la coda da castoro, gli aculei da istrice…
E così, come scopriamo man mano anche solo osservando le illustrazioni i desideri più reconditi di trasformazione dello scoiattolo, capiamo in un lampo, non serve nemmeno il testo, cosa accade nell’ultima pagina quando compare un animale… con la coda da scoiattolo.
Ancora una volta Tallec riesce a giocare alla perfezione con le potenzialità dei linguaggi e costruisce una storia che è una metafora al tempo stesso semplice e complessa in cui si cela una domanda di senso sull’identità individuale e anche, cosa forse più importante, sull’autoriconoscimento di se stessi.
Ci piaciamo così come siamo?
Se avessimo caratteristiche diverse saremmo diversi?
Da qui in poi ogni strada è buona per sondare i tanti strati a cui può condurci un albo come questo a riprova, ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, che la semplicità sottende abissi di complessità, basta porsi delle domande e non accontentarsi delle risposte.