Vento del nord

e fu così che nacque da una donna del mare,

nacque da una donna del mare con un grumo

di sangue nel suo piccolo pugno.

un segno.

In poche situazioni il modo di dire “chi ben comincia è a metà dell’opera” è vero come accade nei libri.

Un incipit, in poche, pochissime righe, può farvi fare la netta scelta di campo tra il proseguire nella lettura e meno, ma un incipit può anche darci in pochissime righe il senso profondo della forza narrativa della storia che stiamo per leggere. Così accade, sempre, con un grandissimo come Gary Paulsen che nell’incipit stabilisce uno patto col lettore talmente stretto e stringente da trascinarlo con sè nelle avventure più rovinose dalla prima all’ultima pagina.

Così è accaduto per me anche con Vento del nord, l’ultimo libro di Paulsen edito da Il battello a vapore con la traduzione di Maurizio Bartocchi e la prefazione di Davide Morosinotto (che vale la pena di leggere con attenzione). Vento del nord si apre con alcune pagine che riproducono con caratteri diversi dal resto, come se fossero scolpiti su una tavoletta di argilla o di legno, l’inizio della saga del figlio del mare, un testo che che appare al tempo stesso un modo per farci sapere cos’è accaduto prima del momento in cui la narrazione inizia ed anche un modo per darci notizie indirette su ciò che accadrà oltre la chiusa del libro.

Da qui in poi inizia la narrazione della storia di Leif che ancora ragazzino salirà su una canoa e affronterà da solo il mare puntando all’estremo nord in cerca di aria respirabile. Di questo ragazzino sappiamo poco o niente se non quello che di terribile ci viene detto dalla saga iniziale e dai radi ricordi del protagonista stesso: salire sulla canoa, da solo, giovanissimo, quasi ancora bambino, potrebbe sembrare la cosa peggiore accadutagli e invece piano piano si rivelerà l’unica via di salvezza per chi, nato e cresciuto senza mamma e senza nessun essere umano che se ne prendesse cura, aveva conosciuto solo una forma di subumanità a bordo delle navi al servizio di marinai beceri. Leif intraprende un viaggio alla scoperta del nord, del mondo naturale, ed ovviamente si tratta anche di un viaggio dentro di sè, alla scoperta delle propria forza, delle proprie possibilità e capacità. Leif pensa, studia le situazioni, osserva con attenzione estrema ogni cosa del mondo naturale che lo circonda, arriva a ricercare una totale adesione alla natura che può ucciderlo, certo, ma che lo può tenere in vita se lui saprà riconoscere e rispettare gli equilibri che la governano.

Leif vive un confronto diretto con la vita selvaggia che può a tratti ricordare quello del protagonista di Nelle terre selvagge, è evidente che a Paulsen interessa particolarmente la sfida che non contrappone ma porta l’essere umano, giovane, ad entrare in una relazione simbiotica con la natura selvaggia. Leif fa i conti con i corvi, le balene, gli orsi, i gabbiani, ma anche le piante, i salmoni, le correnti, i fiordi e gli iceberg. Ma Leif fa anche i conti con se stesso, con ciò che deve imparare a fare per non trovarsi in pericolo mortale (cosa che accadrà molteplici volte), scopre l’importanza dell’autonarrazione, ovvero del poter fissare in qualche modo la propria storia, i proprio sogni, scopre il mondo, la relazione (almeno quella che immagina ci possa essere) tra i sogni e la realtà, ma soprattutto scopre la differenza tra ciò che sa e ciò che crede di sapere. Vi stupirà riscontrare quante volte intervengano frasi a introdurre il dubbio in ciò che Leif pensa o sa.

Non mi dilungo oltre rispetto a trama e intreccio ma vorrei soffermarmi un attimo sulla sapienza della scrittura che grazie al narratore onnisciente e alla costruzione ritmica riesce a farci sentire tutta la forza dell’avventura di Leif in quanto tale, viviamo con lui questa tensione verso la vota e l’adesione alla natura, ma anche in quanto metafora del percorso di crescita individuale che porta a scontrarsi non solo con le avversità e meraviglie del mondo esterno, ma anche con le stereotipie e rigidità individuali. Ho provato un fortissimo senso di nervosismo e disagio quando, avanti nella narrazione, Leif continua testardemente e in maniera, a me pareva, del tutto irrazionale, a puntare verso nord.

Quando Leif avrebbe cambiato la rotta della canoa e avrebbe smesso di andare a nord? Perché ancora non lo faceva? Cosa mancava per capire l’evidente?

L’ultima pagina risolve la questione e non vi dirò mai perché e come lo fa ma mi limito a notare, in chiusura, che se l’incipit è il luogo per eccellenza in cui un narratore deve esprimere tutta la propria capacità, l’explicit, la chiusa del libro, è luogo altrettanto delicato e imprescindibile con cui confrontarsi, il luogo in cui tutti l’autore decide come lasciarci tornare al mondo reale, come accomiatarsi dal lettore e dalla lettrice e lasciar continuare a vivere nel mondo immaginario il protagonista (o più protagonisti) del libro. Paulsen riesce a chiudere tutto in un’unica pagina e da lì in poi certo potremo continuare a fantasticare di cosa accadrà a Leif, o potremo andare a riprendere le pagine iniziali per cercare tracce che ci aiutino nell’ipotesi di un sequel, o ancora potremo leggere – per differire ancora un poco il momento in cui chiuderemo il libro – la nota dell’autore che ci svelerà moltissimi elementi estremamente interessanti sul personaggio, sull’ambientazione ecc. Ma di fatto con quell’ultima pagina Paulsen ci lascia al nostro destino e non resta che sperare che Leif ci sia rimasto un pochino dentro, che il suo viaggio sia servito a qualcosa non solo per lui ma per noi, lettori e lettrici di tutte le età che avremo avuto la fortuna di metterci con lui sulla canoa in rotta verso nord.

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