Il teschio

E finalmente eccomi qui, sono settimane che Il teschio di Jon Klassen edito da Zoolibri, mi ronza intorno e mi guarda con quegli occhi incredibili, occhi di bambine e di testi.

Oggi finalmente mi sono risolta perché tanto so che qualsiasi cosa potrei riuscire a scrivere su questo libro mi sembrerebbe riduttivo quindi, un giorno vale l’altro e aprire la settimana con Il teschio mi pare di per sé cosa buona e giusta.

Iniziamo col dire brevissimamente di che storia si tratta: come Klassen dichiara sin dal sottotitolo del frontespizio, Il teschio è un racconto popolare tirolese (o quasi) che racconta la storia di una bambina, Otilla, che scappando nel bosco si ritrova in un bel palazzo accolta amichevolmente da un teschio che ogni sera viene reclamato da uno scheletro privo di testa. Sarà Otilla a liberare il teschio dal suo scheletro persecutore in modo da poter poi autonomamente decidere di rimanere a vivere a palazzo con il teschio.

Questa la trama del libro che, come sempre, non dice granché e non vale nulla senza la forma che le dà sostanza e senso, ed è qui che emerge, come sempre, la grandezza di Klassen. Iniziamo col dire che Il teschio non è un albo illustrato: benché la struttura divisa in capitoli richiami quella sperimentata in Il sasso dal cielo e prima ancora di Toh! Un cappello!, la narrazione messa in scena con parole e immagini ne Il teschio è più vicina alla narrativa che non al libro a figure, una narrativa illustrata ma che credo tenga la sua forma chiara nell’uso e nella costruzione del testo che non è quello tipico del libro a figure ma piuttosto del libro A figure. Sottigliezze, direte. Forse, risponderei io. Ma forse no, se quello che ci preme non è trovare paletti alle forme in cui la letteratura si esprime bensì andare ad individuare il modo in cui lo fa e che sono specifiche dei diversi linguaggi.

Le illustrazioni di Klassen mi paiono straordinariamente concentrate sulla luce e sugli occhi penetranti (forse potremmo dire anche perforante perché escono dalla pagina per raggiungere e inchiodare il lettore) di bambina e teschio, mentre al testo è lasciato il compito di collegare il sottinteso delle immagini. La storia è divisa in 5 parti ognuna a sua volta divisa in 3 capitoli ad eccezione della quinta e ultima parte che ha un unico capitolo di chiusura. Potremmo ragionare a lungo sulla costruzione del ritmo nella divisione narrativa ma non lo farò in questa sede, resterei invece un pochino più un superficie per sottolineare due elementi che riguardano sia la costruzione del testo sia la ricezione dal parte del lettore e della lettrice.

Questa è uno di quelle opere letterarie cui gioverebbe una interpretazione di critica psicanalitica perché la storia ha degli elemementi sicuramente perturbanti che Klassen gestisce al meglio riuscendo tra parole e immagini a mantenere controllato il livello di angoscia che la narrazione potrebbe scatenare e in cui credo moltissima parte abbiano gli sguardi, gli occhi, sia quelli dalla cornea impressionantemente bianca di Otilla che quelli neri delle orbite vuote del teschio. Il modo in cui Otilla con assoluta sicurezza elimina lo scheletro che perseguita lo scheletro lascia di stucco, la sua espressione apparentemente sempre simile a se stessa ed apparentemente sempre impassibili (non sappiamo cosa l’abbia fatta scappare di casa, doveva essere sicuramente qualcosa di più spaventevole di un teschio gentile che ti offre ospitalità nel cuore della notte).

Ma il libro meriterebbe una bella analisi di impostazione psicanalitica per il modo in cui l’autore rielabora il racconto tirolese da cui trae spunto: come Klassen ci tiene a puntualizzare in un post scriptum al libro, la storia originale non finisce e non evolve come l’ha fatta procedere Klassen! L’autore nel ricordo ha modificato e alterato il senso ed anche l’evoluzione della narrazione, potremmo dire che ci sono stati moti inconsci che hanno prodotto tutto questo ma questo credo interessi di più l’analista di Klassen piuttosto che noi. Tuttavia quello che emerge è proprio il processo in cui si creano le storie e con cui si esprime la creatività ed il genio, come nel caso di Klassen: tutti rielaboriamo in continuazione storie e cose che abbiamo conosciuto, incontrato in qualche modo in qualche momento, talvolta lo facciamo in maniera conscia ma più spesso è un processo inconscio che scatena l’originalità di nuove variazioni narrative. Credo che questo sia successo a Klassen e credo sia estremamente interessante che lui abbia tenuto a sottolineare la distanza del suo testo dall’originale offrendoci un’opportunità per ragionare sulla scrittura.

E l’ironia di Klassen, quella che adoriamo nei suoi libri che fine ha fatto, forse vi starete domandando.

C’è, c’è, non è così esplicita come in altri libri, è decisamente più sottile e mascherata ma non manca, anzi… vi do un indizio, occhio al teschio!

Qui mi fermo ma vi consiglio di andare a leggere la recensione di Carla Ghisalberti che in due post ci offre un pensiero davvero articolato su questo libro eccezionale di Klasse, potete leggere il testo di Carla qui e qui.

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