Eravamo il suono

Erano due anni che aspettavo il nuovo romanzo di Matteo Corradini.

Dopo quello straordinario romanzo che è Irma Kohn è stata qui che resta centrale nelle mie proposte di letteratura per ragazzi e ragazze, ecco che adesso arriva Eravamo il suono edito da Lapis e a lui vorrei dedicare attenzione oggi e da oggi in poi.

Eravamo il suono racconta la storia di 8 donne, 8 membri dell’orchestra femminile di Auschwitz, a cui fa da eco, nel presente, la vicenda di due ragazze che preparano il loro primo concerto con la scuola. Provo a dirlo meglio: le vicende di Anita e Alma che aprono, chiudono e inframezzano la costruzione del romanzo, formano la cornice narrativa in cui si introducono le 8 storie delle musiciste di Auschwitz andando a formare un intreccio interessante, particolare e decisamente efficace, per condurre la narrazione con la levità necessaria all’argomento. Le 8 protagoniste che Matteo Corradini sceglie rappresentano, tra l’altro, 8 diverse anime e modi di stare nel lager e anche di finirci; inoltre, fedele alla linea della ricerca delle luci nella Shoah, Corradini sceglie 8 tra le musiciste dell’orchestra femminile di Auschwitz che non sono morte nel campo di concentramento: come spiegano nel dettaglio le pagine che seguono il romanzo, 7 di loro sono sopravvissute allo sterminio e l’unica non sopravvissuta, la direttrice dell’orchestra e violinista Alma Rosé, è morta ad Auschwitz per cause ancora sconosciute ma non seguendo il tragico percorso di chi è andato in camera a gas o è morto di stenti o di violenze nell’inferno del campo.

Se la cornice usa una focalizzazione zero, ovvero é un narratore che dall’esterno ci fa sentire parole e pensieri di Anita e Alma, le altre 8 protagoniste della storia (e della Storia) invece si raccontano in prima persona, con una focalizzazione interna che richiama la forma del romanzo corale che viene però interrotta dalla cornice. Tutto assolutamente funzionale a diversi livelli tra cui, la tenuta della portata emotiva di questa, anzi di queste storie, che affondano le proprie radici nella Storia più nera di tutte. È per altro, forse, se non vado errata, la prima volta che Corradini ci porta in maniera così esplicita dentro le baracche di un campo di concentramento ed anche qui, come sempre, lo fa scegliendo una strada diagonale, in grado di dare spessore, e al tempo stesso di controllare, il peso della scrittura e della storia: entriamo sì nel campo, ne vediamo alcuni orrori, ma attraverso gli occhi di chi viveva nella baracca dell’orchestra in cui c’era qualcosa (molto poco) di più da mangiare e in cui si poteva avere un minimo di calore per non rovinare gli strumenti…

Una luce nel buio, forse, data dalla musica, elemento portante della poetica di Corradini, sempre presente nel suo orizzonte narrativo che si tratti di Shoah o meno. La musica che fa da colonna sonora della scrittura innanzitutto, come se ci fosse bisogno di immaginare armonie sonore per poter trovare l’armonia tra le parole, le frasi, le voci, le storie che qui, letteralmente, si accordano tra loro con l’unico obiettivo di riuscire a sopravvivere. Ma in questo romanzo la musica ha anche, forse, un’altra funzione, o almeno io ho sentito anche questo elemento: sottolineare, implicitamente, rimarcare, l’assurdità della visione nazista che nell’inferno del campo di concentramento, nel cuore della soluzione finale, ricerca la bellezza e l’armonia della musica. L’attenzione agli strumenti, alla routine segnata dalla musica per alleviare le giornate degli aguzzini, qualcosa del tutto inconcepibile e stonato, totalmente fuori posto in quel luogo di disumanità.

Accompagna tutta la narrazione un elemento simbolico particolare che lo stesso Matteo Corradini individua come innesco narrativo: la conchiglia. Alma e Anita vengono mandate dalla loro insegnante di musica a raccogliere conchiglie sulla spiaggia, e non conchiglie qualsiasi, bensì quelle che permettono di far sentire il mare dentro, che poi altro non è che il suono del sangue di chi accosta l’orecchio in cerca del suono.

Ogni conchiglia ha accolto al suo interno un essere vivente, ed è stata un involucro della vita. Allo stesso modo, uno strumento musicale, laddove nasce il suono, è l’involucro della musica. Conchiglie e strumenti, presi a sé stanti, dicono poco: li comprendiamo veramente se invece conosciamo le storie di chi li ha abitati, di chi li ha suonati.

http://www.matteocorradini.com/libri/eravamo-il-suono/

La conchiglia dunque è non solo l’innesco narrativo usato da Corradini ma anche il correlativo oggettivo degli strumenti musicali, e gli strumenti (voce inclusa) si fanno, a loro volta, correlativo oggettivo della vita che hanno accolto.

Matteo Corradini torna a raccontarci storie nella Shoah ma che sono innanzitutto storie di ragazze, in un romanzo totalmente, come spessissimo fa lui, al femminile; ragazze come tante con la spinta vitale come unico talento davvero necessario per stare al mondo, al netto delle capacità musicali di ognuna.

Dunque vediamo: perché consigliare la lettura di Eravamo il suono?

NON perché siamo a ridosso del giorno della memoria.

Non perché al centro ci sono storie della Shoah

E nemmeno perché dentro ci possiamo trovare diecimila agganci didattici possibili…

Consiglio Eravamo il sono, come francamente ogni altro libro di Matteo Corradini, per la sua qualità letteraria, la scrittura sonora, chiara e ironica che qui mi pare si faccia più precisa che mai, la sintassi pulita e musicale.

Consiglio Eravamo il suono perché è un gran bel romanzo e credo che questo sia più che sufficiente.

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