Il signore delle mosche
Il signore delle mosche di William Golding, edito da Mondadori con la traduzione di Filippo Donini e la prefazione di Stephen King (imperdibile), è uno di quei libri di cui ci è senz’altro capitato di sentire almeno il titolo e che non so poi di fatto in quanti abbiano davvero letto. Il signore delle mosche è proprio l’esempio di quel che si suol definire un “classico per ragazzi”, ovvero un libro che riesce a farsi un baffo dei tempi e degli spazi per restare sempre attuale, leggibile dal suo giovane lettore o lettrice… questo, nella definizione narratologica, dovrebbe essere un classico: un libro che sa essere sempre attuale… Mica facile trovare un libro così e credo francamente che, di fatto, pochissimi libri considerati “classici” lo siano davvero in questo senso (complice anche la possibilità di avere tra le mani una buona traduzione aggiornata anche dal punto di vista linguistico, ma questo è un altri discorso che ho provato ad affrontare al volo qui.
Dunque diciamo che Il signore delle mosche è un libro che oggi, come ieri si lascia leggere con grandissimo trasporto ed emozione, che riesce a parlare nel profondo all’anima del giovane lettore e lettrice perché ciò che racconta e che mette in scena è una storia fuori dal tempo e dallo spazio (grazie ad un espediente letterario) e che racconta una condizione in cui tantissimi ragazzi e ragazze hanno sognato di trovarsi portandola però alle estreme conseguenze… possiamo forse dire che Golding costruisce magistralmente un esperimento sociale, crea un microcosmo perfetto in cui accogliere tutti i protagonisti di questo che si rivela essere proprio un esperimento antropologico, una prova dell’utopia sognata che diventa distopia sociale…
Ma entriamo per qualche secondo nella trama: Il signore delle mosche racconta di un gruppo di ragazzini che si ritrovano su un’isola deserta a seguito di un incidente aereo, si ritrovano senza adulti e devono trovare una forma di organizzazione tra loro per sopravvivere e richiamare l’attenzione di qualche nave di passaggio per farsi salvare. Nel gruppo di bambini e ragazzi ci sono dei personaggi leder, Ralph Piggy e Jack in primis, che indicano una rotta di organizzazione e si polarizzano in due tipi di società diverse, direi opposte, una che punta alla responsabilizzazione (nei limiti del possibile) in vista del bene futuro ed una al disinteresse in vista del piacere al presente. I ragazzi si scontrano man mano con problemi di ordine non solo pratico ma di sopravvivenza, il procacciamento del cibo, l’isola è generosa e offre frutta e acqua a volontà, ed anche maiali a volontà ma bisogna prenderli e ucciderli e questo alza evidentemente la posta in gioco, cosa sono disposti a fare i ragazzi per la sopravvivenza? Il sangue che prima spaventa ed attira dopo diventa “normale”, l’attezione verso i piccoli e i deboli piano piano si perde nel tempo e nelle diverse direzioni che i due leader prendono per condurre il gruppo… Insomma quello che inizia come il sogno di ogni ragazzino: una terra vergine da esplorare senza adulti ed in cui vivere ogni tipo di avventura selvaggia; diventa dopo poco un vero e proprio incubo, soprattutto per qualcuno che non riesce a staccarsi da dosso (valuterà il lettore poi se per fortuna o per sfortuna) un indizio di civilizzazione, di rispetto delle regole sociali.
Le implicazioni della narrazione a livello sia di intreccio che di reazione da parte del lettore sono tantissime, tutto si alza di livello emotivo quando si insinua la paura di un qualcosa che attacca e uccide chi si separa dal gruppo, quando iniziano a sovrapporsi i livelli di realtà e di immaginazione.
Non mi soffermerò sui dettagli dell’intreccio che sono tantissimi e che vi toglierebbero la sorpresa di scoprire questo libro, qualora non lo aveste già incontrato da ragazzi, però vorrei fermarmi invece su due elementi che secondo me la fanno da padrone della costruzione eccezionale della scrittura di questo libro: ho pensato a lungo che la costruzione dei personaggi fosse il centro narrativo della narrazione e invece adesso mi rendo conto che forse così non è. O meglio, è evidente che in un capolavoro del genere ogni elemento narrativo deve essere giocato al massimo e deve riuscire fuori alla perfezione in armonia con tutti gli altri, e tuttavia credo ci sia sempre un elemento più forte degli altri in una costruzione narrativa e mi pare che questo sia il climax, ovvero la gestione del tempo della narrazione, del ritmo narrativo: ovvero il mix tra tempo interno alla narrazione e gestione del ritmo narrativo che messi insieme producono un effetto di ascesa quasi parossistica in cui arriviamo alla fine della storia ad un passo dall’autodistruzione, o almeno della distruzione del gruppo di ragazzini… sopravvissuti. La morte non è più un tabù, il sangue, di animali ma anche di umani coetanei, ad un certo punto lo vediamo scorrere non solo senza più alcun timore ma con una sorta di compiacimento.
La riuscita del tutto credo dipenda moltissimo dalla focalizzazione zero onnisciente ovvero dalla decisione di scrivere in terza persona, senza assumere un punto di vista interno che, a seconda di quale sarebbe stato il personaggio che avrebbe detto “io” avrebbe implicato un giudizio nei confronti degli altri membri del gruppo. Il narratore in terza persona ci permette di vedere tutto da una prospettiva esterna, farci noi l’idea di cosa sta accadendo, di chi seguiremmo come leader se fossimo malauguratamente caduti anche noi su quell’isola, e permette al narratore di gestire l’ansia crescente con quell’ironia inglese che sa stemperare senza sminuire, accrescere l’attaccamento alla narrazione.
[…] Ecco che finalmente il sogno confuso di un mondo immaginario si faceva realtà. […]
Potremmo intravvedere in questo testo che venne scritto per la prima volta nel 1952, ma quello che leggiamo qui è del 1954, una miriade di riferimenti letterari, di metafore più o meno esplicite alla società contemporanea, oggi come allora, insomma potremmo dare infinite letture del romanzo, io, ad esempio, andrei in primis a indagare il rapporto con la narrazione di Utopia di Thomas More perché mi pare che Il signore delle mosche non possa prescindervi sia in senso intrinseco che metaforico, ma tutto questo lo lascio a voi, come sapete non mi interessa interpretare ma capire le strutture perché poi ognuno possa interpretare il tutto come meglio crede. E dunque seguendo le strutture la cosa che più mi interessa è come questo romanzo così lontano nel tempo sia incredibilmente moderno e credo molto vicino anche ai lettori ragazzi e ragazze di oggi perché ciò che che mette in scena, complice l’ambientazione che stacca dal riferimento sociale e storico dell’epoca, è una gigantesca riproduzione dei movimenti dell’animo adolescente e umano in generale, le opposte pulsioni che si scontrano e in cui ogni lettore può in qualche misura ritrovare se stesso.
Che cos’è dunque Il signore delle mosche?
Un grande, strepitoso romanzo che oggi, come settanta anni fa regge la lettura alla perfezione, un classico che può solo pagare lo stereotipo che la parola “classico” spesso si porta dietro agli occhi di ragazzi e ragazze, un libro da leggere lasciandosi trasportare e anche lasciandocisi mettere in crisi, a qualsiasi età….
Il signore delle mosche credo sia anche un libro che regge benissimo la lettura ad alta voce nel contesto classe che di per sé rappresenta un piccolo gruppo sociale con le proprie dinamiche interne che forse si potrebbe ritrovare su quell’isola insieme a Ralph e gli altri.
Prima di lasciarvi e augurarvi buona lettura segnalo, per chi avesse piacere di approfondire con suggestioni di altro tipo, la puntata di Classico a Chi? dedicata a Il signore delle mosche, podcast di Mare di libri ecc. condotto da Alessia Canducci e Pierdomenico Baccalario.